SFIDE: L’ARCHITETTO CONTRO IL VINCOLO URBANISTICO

A volte le sfide che si presentano all’architetto sono di natura fisica, altre volte di natura esclusivamente intellettuale. E’ il caso del vincolo urbanistico. L’architetto combatte la sfida contro il vincolo urbanistico su due livelli: per sé stesso e per i suoi clienti. In entrambi i casi si tratta di sfide complicate, a volte impossibili.

Dicesi “vincolo urbanistico” una restrizione alla libera utilizzazione e godimento della proprietà privata. Non è agevole da spiegare ai profani.

Per dirla con una metafora sessista, il vincolo urbanistico è come quando una sera si incontra una/uno, ci si conosce, inizia il gioco di sguardi, si beve un gin-tonic, si va a ballare, si crea un feeling, ci si apparta da qualche parte, sale l’entusiasmo e parte l’ormone, ma quando si arriva al dunque lei dice: “scusa, ma ho le mie cose”, oppure lui dice: “scusa, sono di culto mormone praticante e non posso fare niente prima del matrimonio”.

E addio sogni di gloria.

Nel caso delle aspirazioni dell’architetto, specie dei più giovani e sognatori, il vincolo urbanistico corrisponde ad una specie di inatteso mostro crudele. Infatti nelle facoltà di architettura non si parla mai di vincoli urbanistici: decine di esami di progettazione svolti in mondi fatati dove fioriscono splendide intenzioni che, in realtà, potrebbero essere realizzate solo al centro dell’altopiano del Gobi a nord della Mongolia.

Il 345% del territorio italiano è costellato da vincoli urbanistici. Cioè ce ne sono sempre almeno due o tre contemporaneamente. Tutte le volte che un politico dice “snelliremo la burocrazia anche in campo edilizio”, un muratore senegalese inciampa in un batti piede rischiando di precipitare da un ponteggio e un architetto ha un principio di arresto cardio-circolatorio mentre cerca di decriptare l’ennesimo fascicolo gigante delle norme tecniche di attuazione dell’ennesimo piano regolatore.

Le modalità tramite le quali i vincoli urbanistici vengono disposti sul territorio è ben spiegata dal “Primo principio del vincolo urbanistico”, che recita: “La probabilità che un’area sia vincolata è indirettamente proporzionale al grado di parentela che intercorre tra l’assessore all’urbanistica ed il proprietario dell’area stessa”.

In taluni casi, l’architetto oltre a scontrarsi personalmente con il vincolo urbanistico si scontra anche con il suo controllore; si tratta spesso di un collega passato nelle fila del nemico, cioè nella pubblica amministrazione. Tale collega, ogni ventotto del mese viene pagato per far rispettare i vincoli, a volte anche dandone interpretazioni più severe, se lo ritiene utile.

Quando un architetto prova a sfidare il controllore del vincolo urbanistico, non è raro che ne venga fuori non solo sconfitto ma persino umiliato. Il controllore, infatti, ha già operato la sua trasformazione genetica che lo ha mutato da architetto a burocrate. Oramai non saprebbe più disegnare nemmeno la cuccia di un pechinese, in compenso conosce a memoria almeno 100.000 leggi, che cita agilmente, destreggiandosi tra i “combinati disposti” come Valentino Rossi tra le chicane del Mugello.

Tuttavia per l’architetto una sfida ancora più impegnativa, è rappresentata dallo spiegare il vincolo urbanistico al suo cliente medio.

Il cliente medio, infatti, circa la (sua) proprietà privata, non riconosce la legittimità di nessun vincolo. Di nessuna natura. I più ortodossi, anagraficamente anziani, sono ancora fermi immobili al 1965 e ritengono che entro i confini del proprio terreno si possa costruire liberamente, in dimensioni, materiali e gusto. Dando vita e spessore culturale alla corrente degli “Urbanisti-edil-anarchici”, meglio nota come degli “Abusivisti”, una sorta di comunità, tipo hippie, che hanno sostituito al concetto di “amore libero”, quello più pratico dell'”edilizia libera”.

A volte l’architetto, durante queste sue delucidazioni, è costretto non solo ad evidenziare l’esistenza di un vincolo ma ad entrare nei dettagli, avventurandosi nell’enunciazione delle differenze tra un intervento di “manutenzione straordinaria” (quasi sempre ammissibile) ed uno di “ristrutturazione edilizia” (quasi sempre vietato). Quando il cliente medio capisce che, a causa di un vincolo urbanistico e del rigore dell’architetto, non può fare quello che desidera, ha due strade: rientrare nella categoria degli abusivisti di cui sopra o cercare un geometra fermo al 1965.

Nell’Italia dei “piani urbanistici sotto il vulcano” come canta De Gregori, esistono centinaia di vincoli urbanistici, ma il più ostico è senza dubbio quello sulla destinazione d’uso. Sempre per usare una metafora, il vincolo sulla destinazione d’uso è come quando ti rechi al multisala per un film di David Linch ma i tuoi amici ti obbligano a vedere “Natale sul Nilo” con Boldi e De Sica.

Tra categorie funzionali, mutamenti senza o con opere, oneri concessori, zone agricole, destinazioni prevalenti, piano “casa” e cazzi vari, l’architetto si imbatte contro un avversario che non gli lascia scampo.

Ci sono architetti che da anni provano disperatamente a realizzare un bagno in un locale deposito per renderlo perlomeno utilizzabile: hanno speso già un migliaio di euro tra fotocopie, versamenti per diritti di segreteria e telefonate ad amici avvocati, senza nessun risultato.

Il cliente medio, nel frattempo, ha già vinto la sua sfida personale contro la destinazione d’uso. Silenziosamente, una sera d’estate, ha posizionato un divano-letto in cantina davanti ad un tv led a 55 pollici, chiamato l’idraulico che ci ha piazzato dentro un bel bagno con tanto di doccia mosaicata, birre in frigo, due zanzariere alle finestre, e vaffanculo al vincolo urbanistico.

In realtà ci sono anche architetti, più navigati, che conoscono la natura e il punto debole del vincolo-mostro e non ne sono impauriti. Anzi, lo adescano con proposte indecenti, ci fanno amicizia e poi ci escono a cena. Alcuni architetti, ammanigliati, sono talmente amici intimi del mostro che sanno come ammorbidirlo o eliminarlo introducendo il gettone richiesto nella fessura giusta.

E non ci sono controllori, cicli o religioni che tengano.

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