SFIDE: L’ARCHITETTO CONTRO IL CONDONO EDILIZIO

In questi giorni si parla molto di condono edilizio.

Esistono, specie in Italia, molti tipi di condono, ma quello edilizio è il più affascinante.

Si tratta di un argomento dall’incrollabile fascino che, periodicamente, viene rispolverato dal governo e osteggiato dall’opposizione. A turno.

Le frasi più utilizzate, sempre le stesse, sono le seguenti: “occorre mettere un punto fermo”, “centinaia di persone non possono rimanere senza una risposta”, “è giunta l’ora di fare chiarezza” (maggioranza) e “è una vergogna”, “di condono si muore”, “basta nuovi condoni”, “serve legalità” (minoranza).

Di condono parlano tutti ma pochi ne hanno veramente coscienza. Bisognerebbe prima studiare a fondo l’argomento, assistere alla costruzione di opere abusive, studiare le tecniche di confezionamento e leggere “La speculazione edilizia” di Calvino, prima di aprir bocca.

La casa abusiva, infatti, prevede un’abilità tecnica e un temerarietà legale, che non può essere derubricata come una semplice opera illegittima. “L’illegalità dell’azione non può oscurare la dignità tecnica del gesto” (cit. “L’Architemario”).

Come tutte le contese che si ingaggiano con la pubblica amministrazione anche il condono edilizio è un’impresa erculea. Come avventurarsi in un labirinto del quale non si sa dove sia l’uscita.

Si può dunque definire il condono edilizio un infinito gioco dell’oca, dove l’oca può essere l’architetto che di questo fenomeno, suo malgrado, ne è testimone e, a volte, interprete.

La sfida dell’architetto contro il condono edilizio si può proporre con due differenti modalità.

Modalità morale: l’architetto ha il dovere di porsi il quesito etico: “è giusto accettare un incarico che prevede l’uso dello strumento del condono?”. Il dibattito è aperto.

Una frangia di architetti che ci tiene a mantenere una coerenza professionale, osteggia il condono chiedendone il definitivo accantonamento, per questo motivo non accetta questo tipo di incarichi. Questo è una prima maniera di vincere la sfida.

Modalità tecnica: una pattuglia di architetti meno integralista, è persuasa che, tramite un controllo delle costruzioni abusive, può contribuire a sanarle sia da un punto di vista statico che estetico.

A questi si affiancano altri architetti, meno idealisti, che, in quanto disperati, accetterebbero qualsiasi incarico, figuriamoci se si mettono a fare gli schizzinosi col condono edilizio.

Per queste due categorie di architetti la sfida consiste nel rendere legale un manufatto abusivo.

Una volta era piuttosto semplice: truppe di geometri ne sono usciti vittoriosi con relativo sforzo.

Oggi non è più così. In Italia la strada che conduce alla legalità è irta di trappole e paradossi, parecchio lunga, infinitamente costosa e spesso non da neanche troppe soddisfazioni.

Il primo impegno è la verifica che l’abuso sia compatibile con le attuali normative, specialmente quelle paesaggistiche. Qui, considerato che oramai il 90% del territorio italico è vincolato, terminano la maggior parte delle sfide contro il condono. L’architetto, mortificato, lo comunica all’abusivo che scrolla le spalle, saluta l’architetto e contatta l’avvocato.

Nel caso riesca ad evitare questo ostacolo, ecco che l’architetto si mette al lavoro per accertare la famigerata “doppia conformità” ovvero urbanistica e paesaggistica. Così affronta in sequenza: il giudizio dell’UTC, l’inflessibilità dell’Agenzia del territorio, il parere della commissione edilizia, le meditazioni della soprintendenza, le tutele dell’Autorità di bacino, le salvaguardie del Parco, le valutazioni della commissione per l’impatto ambientale, i divieti della Forestale, i calcoli del Genio Civile, le perimetrazioni del Demanio, i suggerimenti della Provincia, gli ammonimenti dell’ASL, le richieste delle aziende di fornitura del gas, della luce, dell’acqua, e se serve, le riflessioni del TAR, a ciò, in caso di indispensabili lavori, si aggiungono i controlli dell’ispettorato, le ispezioni dei vigili, le nuove analisi dell’UTC, la vigilanza dei carabinieri, finanza e marina militare, gli incroci dell’Agenzia delle entrate e quindi nuovamente l’approvazione dell’Agenzia del territorio.

La maggior parte delle volte, lungo il percorso, per un motivo qualsiasi (scadenza o riapertura dei termini, modifica della normativa, cambio idea dell’ufficio o del funzionario) si è costretti a ricominciare dalla casella di partenza. Intanto l’abuso edilizio, se non ci pensa un terremoto ad abbatterlo, rimane al suo posto. Immobile e stentoreo. Spesso viene persino ampliato in altezza o nel sottosuolo o abbellito con affascinanti colorazioni.

Per raggiungere il traguardo di questo lunghissimo gioco dell’oca, l’architetto può impiegare decenni. In compenso, lungo il viaggio, incontra un sacco di gente: colleghi, ingegneri, geometri, geologi, agronomi, avvocati, assessori, impiegati, uscieri, segretari comunali, ragionieri e forze dell’ordine, anche loro impegnati a vario titolo nel labirinto dell’oca.

Spesso la pratica di condono si trasmette da padre in figlio. Alcuni padri, geometri ad esempio, hanno deciso o decidono di far studiare il proprio figlio proprio nella speranza di vedere terminata l’impresa da loro iniziata in gioventù. E’ una questione di principio: ma in pochi vincono.

Ovviamente anche gli irregolari si tramandano gli abusi per generazioni: molti padri lasciano gli abusi edilizi ai figli per via testamentaria insieme all’oro e al divano in pelle.

Chiaramente entrambe le categorie, sia gli abusivi che gli architetti, possono morire di vecchiaia mentre sono in attesa di un condono edilizio.

Vi è anche una categoria di abusivi che rinuncia in partenza: sono i più saggi.

Quelli che oramai considerano la legalità, non solo edilizia, un vezzo. Peraltro sopravvalutato.

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Altre sfide dell’architetto: contro il cemento armato

contro l’ufficio tecnico comunale

contro il cuggino del clientec

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