CHIUSO IN CASA

treno-che-passaIl mio amico Rodolfo è chiuso in casa da più di cinque anni.

Ogni tanto gli faccio visita; lui non ne vuole sapere di uscire.

“Che ne dici se andiamo a fare due passi?” io ci provo.

“Là fuori si corrono troppi rischi” mi risponde.

“Non puoi restare in casa per sempre!”.

“Chi dice che non posso?”.

“Allora si sbagliano tutti ad uscire?”.

“La gente è pericolosa”.

Rodolfo dice spesso “la gente”, “la gente qui”, “la gente là”. Ma “la gente” è troppo generico gli dico; le persone non sono tutte uguali.

Dio, quanto generalizza Rodolfo!. Ma è automatico: ha paura.

So che deve esserci qualche altro motivo che lo tiene chiuso in casa: prima o poi lo scoprirò.

Intanto, dal punto di vista strettamente pratico, Rodolfo non ha nessun bisogno di uscire di casa.

Collabora con alcuni settimanali scandalistici, impagina egli stesso gli articoli aggiungendo le foto che gli spediscono. Può fare tutto da casa via internet. Con questo lavoro riesce a guadagnare quel tanto che gli basta per vivere.

D’altronde, non uscendo mai di casa, ha pochissime spese. Ad esempio non ha bisogno di comprarsi né vestiti né scarpe. Vive in ciabatte, indossando una specie di pigiama che sembra una tuta o viceversa. Ne ha varie versioni, a seconda delle stagioni dell’anno.

Dio, quanto si trascura Rodolfo!.

La spesa Rodolfo la fa al telefono: chiama la salumeria all’angolo e se la fa portare a domicilio. A volte ordina anche cibo pronto che consuma da solo, in soggiorno, guardando la tv.

Lungi da me giustificare Rodolfo, ma se ha deciso di non uscire più di casa qualche motivo c’è. E non mi riferisco solo alla sua storia, disgraziata, con Laura, ma ad una serie di disavventure nelle quali è stato purtroppo coinvolto.

Fu investito, due volte, la prima sulle strisce pedonali, la seconda mentre passeggiava sul marciapiede. Un auto sbandò mandandolo all’ospedale con due costole fratturate ed un trauma cranico. Là contrasse una polmonite che gli costò sei mesi di cure.

A quel tempo Rodolfo aveva già smesso di guidare: l’auto la distrusse in un enorme tamponamento sulla tangenziale. Colpa di un camionista che mandava messaggi whatsup mentre guidava.

Nella confusione che seguì gli rubarono anche il cellulare. E Rodolfo non l’ha più ricomprato.

Dio, che sfortuna quella volta Rodolfo!.

“Sono cose che succedono” provai a dirgli per consolarlo.

“Succedono perché là fuori c’è troppa gente pericolosa!”.

Incoscienti, si chiamano incoscienti, Rodolfo. Niente. Da quell’orecchio non ci sente.

“Però là fuori ci sono anche un mucchio di cose belle” gli dissi.

“Fammi un esempio”.

“Le albe, i tramonti”.

“Da qui si vedono benissimo entrambi” rispose indicandomi la finestra del soggiorno.

“E i tuoi amici?”.

“Quali amici? Non ho più amici!”.

“posti meravigliosi”.

“Ne ho visti abbastanza”.

In gioventù Rodolfo aveva molto viaggiato. L’ultima volta con Laura, suo grande amore per dieci anni, era stato in Cornovaglia. Là, le aveva chiesto di sposarlo. Laura aveva esitato, poi gli aveva risposto: “non mi sento pronta, diamoci ancora un po’ di tempo”. Voleva diventare padre, Rodolfo.

Tornati a casa, Laura lo aveva lasciato e dopo due mesi aveva sposato un altro. Con il quale aveva già fatto due figli ed ora aspettava il terzo.

Non era pronta per lui ma evidentemente era pronta per un altro.

Dio, che botta fu quella per Rodolfo!.

“Ci sono ancora un mucchio di donne bellissime, là fuori” gli dico.

“Tutte troie” conclude.

Rodolfo odia i parenti. A parte i genitori che ogni tanto vanno a fargli visita, li detesta tutti, dal secondo grado al quindicesimo. Pensare di uscire e trovarsi dinanzi qualche cugino o uno zio che, certamente, gli farebbe una serie di domande, lo inquieta.

Dio, quanto Rodolfo odia le domande!. E, Dio, quanto lo capisco!.

Ora il suo desiderio è solo starsene tranquillo senza nessuno che gli crei problemi o gli procuri imprevisti.

“Grazie ad internet posso raggiungere chiunque. Senza che nessuno mi cerchi”.

Tecnicamente Rodolfo è il prototipo dell’asociale del terzo millennio. Ritiene di poter vivere benissimo senza imbattersi fisicamente in nessuna altra forma di vita. E la rete lo rassicura.

A volte provo a farlo ridere raccontandogli qualche aneddoto che mi capita al lavoro o storie che ascolto in giro, ma nulla lo diverte. Piuttosto mi chiede dettagli sulla vita di Tizio o aggiornamenti su Sempronio, informazioni che non riesce a ricavare da internet.

Raramente filtra un emozione dal suo viso. Rodolfo non pare mai né felice né triste, è praticamente un inerte, un pesce rosso che nuota nella sua boccia virtuale.

Andavamo allo stadio una volta io e Rodolfo. Più volte ho tentato di convincerlo a tornarci.

“Domenica c’è la partita, andiamo?”.

“Guardiamola qui sul divano. In streaming” mi risponde sempre.

“Non è la stessa cosa”.

“Qui è molto più sicuro: allo stadio possono scoppiare incidenti“.

“Non dire sciocchezze”.

“E se un fanatico si lanciasse con un furgone sulla folla o si facesse esplodere mentre siamo in fila per entrare ?” conclude sempre così ogni discussione.

E si scaraventa sul divano.

Da quando ci sono in giro dei terroristi che usano farsi esplodere in luoghi pubblici o lanciarsi nella folla con grandi autoveicoli, Rodolfo ha un ulteriore argomento per supportare le sue tesi.

Dio, ci mancavano solo i terroristi!.

“Se tutti la pensassero come te” gli ho detto “nessuno uscirebbe più di casa, le strade sarebbero deserte, non ci sarebbe nessuno allo stadio, anzi non si giocherebbe neanche la partita perché non ci sarebbero i giocatori”.

“Tanto è tutto truccato” mi ha risposto.

“Tu perderesti il tuo lavoro perché non ci sarebbe nulla da raccontare sui settimanali”.

“Non c’è nulla da raccontare, già adesso”.

“Un catastrofista, questo sei!”.

“Realismo. Si chiama realismo”.

Rodolfo è convinto di essere oramai in ritardo per qualsiasi cosa. Che i treni della sua vita siano già passati e lui non ci sia salito sopra. O che sia salito su treni sbagliati.

Dio, Rodolfo esci da questa maledetta casa! Passeranno ancora tanti treni!.

Molte persone che conoscono Rodolfo sono convinti che lui sia morto. Quando qualcuno mi chiede di lui, io rispondo che non è in città. Che è fuori per lavoro, che ha cambiato casa o scuse del genere. Ad alcuni, sotto indicazione di Rodolfo, invece, dico proprio che è morto.

“Un brutto male” sussurro sottovoce socchiudendo gli occhi e tirando su le spalle.

Gli interlocutori si limitano a dire “che peccato” o “mi dispiace”, senza chiedere particolari.

Quando lo riferisco a Rodolfo lui pare sollevato.

Mi chiede di uno che conosceva. Se è vivo o morto. Se nel frattempo si sia sposato o abbia avuto dei figli.

Samuele e Brigida mi chiesero di lui. Li vedo spesso, sempre sorridenti, mano nella mano, fare la spesa insieme.

“Fingono” mi dice. “Fingono. In realtà a casa litigano tutto il giorno”.

“Che ne sai?”.

“Lo so”.

Ansioso, mi chiede se li incontro spesso, se i loro bimbi giocano al parco, se viaggiano, se lui ha ancora tutti i capelli, se lei è sempre bella come una volta.

“Si. Rodolfo” rispondo “lui ha tantissimi capelli e lei è addirittura più bella ora che vent’anni fa”.

Per me Rodolfo non ha paura delle persone, ma della loro felicità.

 

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