NEL VILLAGGIO DELLE COSE SMARRITE

Il mio amico Mimmo ha fatto una scoperta straordinaria.

Lui si schernisce, dice che non è una cosa veramente sensazionale; invece per me lo è.

“Non sono il solo ad averla fatta” sostiene.

“Ma sei stato il primo?”.

“Non ha importanza, importante è averla fatta”.

La sua scoperta potrebbe risolvere un mucchio di problemi che affliggono le persone. Ma non è una cosa che si può spiegare , a volte ho come la sensazione che neppure Mimmo abbia capito bene come ci sia riuscito.

“Si. In effetti non te lo saprei spiegare” confessò.

“Pensi che possa riuscirci anche io?” chiesi.

“Può darsi”.

Non ci crederete ma il mio amico Mimmo ha scoperto il posto dove vanno a finire tutte le cose smarrite.

Quando me lo disse pensai immediatamente a quali cose ho perso in questi anni. Ad esempio, quando avevo, credo, sette anni persi il mio soldatino preferito. Non era esattamente un soldatino, era un personaggio della “Playmobil”, di quelli di plastica, snodabili. Aveva il corpo blu e le gambe rosse, era il mio gioco preferito, lo tenevo sempre con me. Finché un giorno non lo trovai più. Lo cercai dappertutto, rovistando in ogni cassetto, setacciando sotto ogni mobile di casa, passando in rassegna ogni angolo, ma niente. Era sparito. Per darmi pace pensai che ci fosse un luogo dove andassero a finire tutti i soldatini che i bambini perdevano e che, prima o poi, da là sarebbe tornato indietro.

Forse fu mia madre a convincermi che fosse così.

Da quel giorno tutte le volte che perdevo qualcosa pensavo che fosse finito in quel posto. A scuola perdevo spesso la penna, ad esempio. Quante penne ci saranno in quel luogo ora ? Ebbene, sappiate che molte di quelle sono mie.

“Come hai fatto a trovare la strada?” ho chiesto a Mimmo.

“Non è che c’è proprio una strada. Cioè non ce n’è solo una”.

“Vuoi dire che ci si può arrivare in vari modi?”.

“Credo che il modo sia sempre più o meno lo stesso” mi ha risposto, “quello che cambia è il tempo che ci vuole. Per questo a volte la strada sembra più lunga, a volte breve”.

“Se è una città, potrei arrivarci in fretta viaggiando in auto. O in aereo”.

“Non ne sono certo”. Vidi che ci rifletteva “Alcuni ti diranno che somiglia ad una grande città, altri potrebbero descrivertela come una periferia buia e pericolosa. Altri ancora sono convinti che questo posto sia lungo un lago, in fondo al mare o sulla cima di una montagna. Ho conosciuto una donna che era convinta fosse al centro di un bosco”.

“Non si può confondere una città con un bosco!”.

“Chi lo dice? Sei tu che decidi. E’ l’idea che ne hai tu che fa di una città una vera città. Se pensi di ritrovare le cose che hai smarrito sul fondo del mare dovrai immergerti, se sei convinto che siano sulla cima del monte più alto, allora devi salire, salire e salire ancora, finché ti sentirai i polpacci bruciare dalla fatica. In entrambi i casi dovrai ricorrere a tutto il fiato che i tuoi polmoni possono contenere, e, ovviamente, non perderti di coraggio”.

Come potrebbe il mio soldatino essere finito sulla cima di un monte ? Pensai. E’ più probabile che qualcuno lo abbia raccolto e poi distrattamente fatto cadere in mare, da una barca o sporgendosi da una scogliera. Ma ammesso che fosse in fondo al mare come sarei stato in grado di ritrovarlo? Il mare è sconfinato.

Fissavo Mimmo perplesso.

“Se ci provi puoi immaginare questo posto!”.

Dimenticai la cima del monte e anche il fondo del mare. Cercai di visualizzare il posto. Mi apparve la prospettiva di una periferia, l’intreccio delle aste dei gasometri, come in un quadro di Sironi, sullo sfondo caroselli di auto, allineate ai semafori nel caos del traffico di una tangenziale al tramonto. No, il posto doveva essere qualcosa di più organizzato, costruito con uno schema che potesse aiutare le persone a ritrovare le cose.

“Che idea te ne sei fatto ?” mi chiese Mimmo.

“Il posto me lo immagino come una specie di villaggio dove ci sono estese praterie, come dei parchi con alberi ed un prato ben falciato. Sull’orizzonte una fila di capannoni rettangolari, dal tetto a doppia falda, uno accanto all’altro. Fuori, sui prati o all’ombra degli alberi, stanno le cose che si sono perse all’aria aperta e là vogliono restare. Tipo i gatti scappati di casa, gli ombrelli lasciati nei treni o all’ingresso dei negozi, le infradito scordate in spiaggia. Nei capannoni, invece, sono conservate tutte le cose che non possono restare alle intemperie. Innanzitutto libri, e poi portafogli, zaini, cappelli e sciarpe, smartphone, carica batteria, ciucci per neonati, beauty case, occhiali…”

“…e chiavi” mi disse Mimmo.

Ecco, certo, chissà quante chiavi ci sono nel villaggio. Ordinate per nome, appese a centomila ganci, in fila con i nomi scritti sul cartellino.

“Sei andato in quel posto a cercare delle chiavi?” chiesi.

“Quelle della casa dei miei genitori”.

Fu allora che le estrasse dalla tasca dei pantaloni e me le mostrò tenendole sospese, giusto a metà nello spazio tra di noi.

Mimmo aveva perso entrambi i genitori, uno dopo l’altro quasi dieci anni fa: prima il padre e poi, dopo meno di un mese, la madre. Vivevano a circa duecento chilometri di distanza dal figlio, in un’altra regione. Lui era ovviamente tornato per i funerali poi, dal giorno della morte della madre, non era più rientrato nella sua casa natia.

Mi ricordo che il fratello ed altri parenti si occuparono di portare via gli effetti personali, Mimmo, dopo la sepoltura, chiese anche a me di prendere dei libri e alcune camicie che custodiva nell’armadio. Dopo l’apertura del testamento quella casa gli era stata assegnata, ma lui si era sempre rifiutato di tornarci.

Diceva che gli faceva troppo male al cuore, ma sperava che, prima o poi, sarebbe venuto il momento giusto.

Non credo che quelle chiavi fossero finite in cima ad un monte. Comunque il “posto” le aveva custodite.

Immaginai Mimmo introdursi in uno dei capannoni, scivolare tra i corridoi, seguire le indicazioni per il reparto “chiavi” e poi con pazienza cercare quelle della casa dei suoi genitori.

Nel capannone doveva esserci anche una parte che conteneva tutti i soldatini smarriti. In quel momento mi venne in mente che quello che persi, credo, a sette anni, non era esattamente un soldatino. Una leggera inquietudine mi prese dalle parti dello stomaco. Se pure avessi raggiunto il posto non avrei saputo bene dove cercare.

Forse nella sezione “giocattoli”, “pupazzi”, “ninnoli”. Chissà…

Tutti i miei sforzi sarebbero stati inutili. Avrei prima dovuto trovare una strada che non era una strada, poi impiegare un tempo che poteva essere breve o infinito, infine riconoscere il “posto”, selezionare tra una città e la campagna, trovare i capannoni e il corridoio giusto. Infine avrei vagato inutilmente perché non sapevo esattamente come poter nominare il mio soldatino smarrito. Ma anche se, fortunatamente lo avessi trovato, magari non avrei saputo ricordarmi di lui, specie se mischiato fra tanti suoi simili.

Pensai che nel villaggio avrei potuto ritrovare altre cose che ho smarrito. Disseminate tra il prato e i capannoni. Ma avrei dovuto prima farne una lista. Accorgermi della loro assenza, cioè.

Certo che non puoi ritrovare proprio nulla se non sai come si chiama, se non sai come riconoscerlo. Se non ti manca.

“Le cose che vuoi davvero ritrovare, quando ti deciderai a farlo, le ricorderai perfettamente”, mi disse Mimmo.

Dopo aver ritrovato le chiavi, il mio amico Mimmo è tornato nella casa dei suoi genitori. Mi ha pure invitato ad andarci. Sta provando a cambiare lavoro per andare a viverci. Da là mi ha telefonato.

“Ci sento ancora l’odore dei miei genitori” mi ha detto eccitato. Era tanto che non lo sentivo così.

“Vieni a trovarmi. Mi aiuti a ristrutturarla. Mettiamo su una nuova attività. Sistemiamo insieme anche il giardino. In primavera vedremo sbocciare le rose”.

Ogni tanto cerco ancora il “posto”. Cioè, il villaggio.

Il mio, non quello di Mimmo.

Mi piacerebbe trovarlo, ma non per il soldatino.

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