LA CITTA’ DEI PARCHEGGI

Se la raggiungete in auto non avrete nessun problema a fermarvi a Parconia, la città dei parcheggi.

Specie se lo farete fuori stagione. Ad esempio a novembre, quando Parconia dorme di un sonno profondissimo.

Il viaggiatore si accorge di esserne in prossimità dalla serie di cartelli in cui si imbatte lungo la strada.

Enormi “P”, bianche in campo azzurro, campeggianti su scritte a caratteri squadrati: “Parking”, “Parcheggio”, “Garage”, “Solo auto”, “Moto”. E altri, meno evidenti, sul ciglio della strada, che annunciano tariffe più economiche, sconti, forfait. Alcuni promettono provvidenziali navette, altri accoppiano gite, brunch o altri servizi aggiuntivi, inimmaginabili.

Parcheggi pubblici e privati, multipiano, sotterranei, scoperti, temporanei, recintati, sorvegliati o incustoditi.

Il viaggiatore avrebbe solo l’imbarazzo della scelta.

Ettari di cemento geometricamente suddivisi in infiniti stalli, in linea, a spina di pesce, a pettine. A fila singola, doppia, tripla. Posti a centinaia, compatti per non sprecare spazio, interrotti solo dalle colonnine per il pagamento del pedaggio, sotto tettoie in plexiglass deformate dal sole o incannucciate pericolanti, localizzabili pure in lontananza grazie ai cartelli che indicano le tariffe.

Spiazzi per lo più sbarrati da cancelli o da transenne automatiche abbassate. In quelli più lontani dal centro, si scorgono auto abbandonate negli angoli, coperte da teloni ignifughi; paiono carcasse di bestie metalliche, in decomposizione meccanica.

E poi tante frecce, che spingono in qualsiasi direzione. “Stop” affrescati, qualche striscia pedonale, linee diagonali a scoraggiare gli indugi, rotatorie senza verde.

Il viaggiatore attraversa questo paesaggio in cerca di una presenza umana, che ritrova solo sotto forma di parcheggiatori che, immobili su sedie di plastica, scrutano l’orizzonte con il viso appena coperto dalla visiera del loro cappellino d’ordinanza. Ne coglie il desiderio, istintivo, di richiamare l’attenzione dell’automobilista con un cenno della mano o sollevando appena le terga dallo scranno.

Intenzione che abortisce per la pigrizia dell’ora o, più ancora, per la consapevolezza dell’inutilità del gesto.

Dove sono gli abitanti?” si chiede il viaggiatore, ma soprattutto “dove è finita la città?”.

Giunto in prossimità del centro, scorge le prime auto in sosta, così affida la sua alle cure di un promettente gestore che assicura di restituirgliela ripulita dentro e fuori. “E anche sanificata” aggiunge “tutto incluso nel prezzo”, forse per giustificare la spesa.

Quando è successo?” chiede il viaggiatore al primo uomo, naturalmente inoperoso, che incontra.

Poco per volta” gli risponde quello.

Avevamo così bisogno di parcheggi che iniziammo a costruirne a ripetizione”.

Così il viaggiatore ricorda che quella fu una città turistica, presa d’assalto d’estate e nelle festività principali.

E gli indigeni, in trappola e disperati, si lamentavano di non aver posto per le loro vetture. Così chiesero ed ottennero agevolazioni, ma non bastarono. Quello del parcheggio, per ogni cittadino, era diventato il problema principale.

Nessuno riparava più le fogne, né i muretti per evitare le frane. Nessuno si preoccupava della mancanza dell’ospedale né del lavoro precario. O degli anziani, dei bambini. E neppure dei poveri. Tutte le energie si concentrarono sulla ricerca dello spazio per i parcheggi”.

Grotte, piazze, slarghi, cortili e giardinetti. Nuovi posti auto sbocciarono ovunque. Tutti i campi, prima coltivati, si mutarono in parcheggi e quando terminarono si iniziò a sventrare le colline. Costruire posti auto divenne un meraviglioso business. “Dopo essere diventati tutti albergatori diventammo tutti parcheggiatori. Fu una rincorsa che sembrava non avere mai fine”.

E infatti è così, riflette il viaggiatore, non è rimasto nessuno spazio libero che non sia un parcheggio.

Varianti urgenti, in una sorta di delirio progressista al contrario, furono varate per aggirare ogni regola, per prima quello del buon senso.

E più si annunciavano parcheggi”, prosegue l’uomo “più si trovava lo spazio e gli stalli aumentavano, più le auto crescevano di numero. Chi aveva un auto sola, ne comprò un’altra, chi ne aveva già due, pensò che forse poteva permettersi la terza. Così il traffico non diminuiva. Anzi, l’utopia di trovare il posto spingeva un numero sempre crescente di automobilisti a mettersi in viaggio”.

Pendolari del piacere che si aggiungevano a quelli del dovere.

“C’erano così tante auto in giro che nelle ore di punta l’aria era irrespirabile. Una nuvola di gas di scarico rimaneva ostinatamente sospesa sulla superficie dell’asfalto incandescente. Iniziammo tutti ad avere l’asma, agli anziani veniva consigliato di non uscire di casa. Anche gli alberi, i pochi rimasti, si ammalarono. Le rondini cambiarono rotta, gli animali selvatici scapparono verso la campagna.

Ma mentre si sventrava il paesaggio qualcuno si accorse che le cose stavano cambiando”.

L’uomo cambia tono, si toglie il cappello e lo poggia sul sedile. Si tocca il cranio pelato. Riprende fiato, poi riprende.

Ma distrutta la bellezza non c’era più niente da vedere. I turisti iniziarono ad andare altrove. Tuttavia nel frattempo erano spariti gli artigiani e i contadini, i ristoratori sommersi dalle spese chiusero l’attività, le case vacanza rimanevano vuote, i giovani emigrarono tutti. Chi era andato via per studiare non fece più ritorno. Poi accadde che il prezzo dei carburanti riprese a salire, le tasse di circolazione si impennarono e le assicurazioni aumentarono il premio. Non aveva più senso possedere un automobile se non per assoluta necessità. Molte finirono dallo sfasciacarrozze”.

Inoltre la mobilità diventava  sempre più leggera, pensa il viaggiatore. Bici elettriche pieghevoli, monopattini, piccole vetture solari monoposto. Così lui, arrivato testardamente con la sua monovolume a benzina, avvertì un senso di inadeguatezza. Ebbe l’impressione di essere un primitivo inquinatore.

E’ stato così che a Parconia, la città dei parcheggi, il panorama è diventato spettrale. Una sconfinata distesa di asfalto e cemento a strisce. Case vuote, cartelli stradali e negozi sfitti.

Cosa ce ne faremo ora di tutti questi posti auto?” si domanda l’uomo, con gli occhi fissi sulla piazza dove una fila di fioriere divide il residuo spazio pedonale da quello, enorme, carrabile.  

Passano finalmente due turisti, dall’abbigliamento il viaggiatore si accorge che vanno per sentieri.

Li vede?” li indica l’uomo “vanno a piedi!”.

Preferiscono così, piuttosto che starsene in una scatola di lamiera.

Resiste questa moda”, pensa il viaggiatore, “di camminare”. 

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