LA CITTA’ DEI TAVOLINI

Se dovessimo stimare la popolazione di Tavolinia, la città dei tavolini, dal numero di sedie e tavolini presenti sul territorio comunale, saremmo certamente tratti in inganno; posizioneremmo infatti Tavolinia tra le città più popolose del mondo.

Alle spalle, forse, solo di Tokyo e Shanghai.

Il viaggiatore, arrivando a Tavolinia di mattina presto, si stupirà dinanzi alla quantità di sedie accatastate. Sui bordi delle piazze, lungo ogni slargo, strada, viottolo, cortile.

Torri di sedie in alluminio impilate, distese di poltroncine di vimini, cumuli di sedute in ferro battuto, raccolte intorno ad una proporzionale quantità di tavolini anodizzati o in robustissimo polipropilene.

Stanno appoggiate alle mura dei fabbricati, seminascoste da muretti di cinta o dinanzi alle vetrine appena dietro la lavagna con la scritta “open/close”; scintillanti nel loro finto acciaio oppure coperte da teli idrorepellenti, tenute insieme da corde elastiche o incatenate con lucchetti.

A cosa serviranno?” si chiederà, ingenuamente, il viaggiatore.

Fino a quando, al battito degli undici rintocchi della campana grande, schiere di camerieri, donne delle pulizie, garzoni, ragazzi imberbi e mètro ingrigiti, spuntano come topi, dalle segrete di piccoli locali magazzino, dalle cucine dei bistrot, depositi di salumerie, enoteche umide e anche da alcuni ristoranti “5 stelle tripadvisor”, e iniziano a disporre, in geometrica espansione, tavolini e sedie.

Tavolini e sedie, tavolini e sedie, tavolini e sedie.

E’ l’esercito della ristorazione outdoor che marcia compatto lungo territori indifesi.

Massimo a mezzogiorno, all’arrivo dei primi ospiti, la colonizzazione è conclusa: ogni metro quadro, dalla banchina al basolato antico, dalla carreggiata asfaltata fino all’incerto acciottolato del centro, risulta coperto.

Taluni innalzano leggii dove appoggiano liste di cibi dai nomi esotici. Seguiti da prezzi apocalittici o S.Q.

Contestualmente, ombrelloni di ogni taglia, stazza, forma e meccanismo, si sollevano alteri, facendo dell’area un’unica ombra, foderando ogni posto a sedere, affinché neanche il più remoto spigolo di tavolino o il piede della sedia più esterna, rimanga esposto ai crudeli raggi solari.

Il viaggiatore, stranito, passeggia, per quello che gli è possibile, tra questo labirinto di tavolini, la maggior parte dei quali ancora vuoti, cercando il percorso più breve per raggiungere il suo traguardo stabilito: una chiesa, l’albergo, la spiaggia. Provando a non rimanere imbottigliato.

Lotta, affannosamente, scansando anche gli inviti, ammiccanti, dei servitori, che con un accogliente movimento di mani, lo accompagnano a sedersi, a rimanere, a prendere almeno un caffè, una cedrata, una pizza surgelata.

Al minimo segno di esitazione, il più aggressivo di quelli, gli poggia tra le mani un bitter gelato, e nel frattempo lo circuisce con un complimento o offrendo un “assaggio”.

I più audaci si producono in performance, bisbigliando: “è gratis!”.

«E’ la concorrenza, bellezza!».

Il viaggiatore meno esperto ci può cascare, rimanendo incastrato tra il dedalo di tavolini e un frigo da asporto.

E’ un’urbanistica rivoluzionaria quella di Tavolinia, policentrica e a scacchiera. Priva di spazio pubblico e con toponomastica alimentare. Zonizzata per tipologie di ristorazione e prodotti atipici. E’ orizzontale, densa, nogreen.

Si potrebbe chiedere agli anziani come fosse Tavolinia prima dell’invasione. Ma i vecchi sono tutti chiusi in casa, per il caldo o per lo spavento; altri, che la via della casa la smarrirono, si sono persi e mai più ritrovati.

Intorno alle 19 Tavolinia esplode. Nuove sedie, altri tavolini compaiono da chissà dove. Anfratti anonimi, angoli ignorati, marciapiedi che si ritenevano indispensabili al camminamento vengono occupati selvaggiamente e quello che sembrava uno slalom già complesso, diviene un ingorgo incomprensibile.

Il popolo dell’aperitivo invade la città, truppe di spritzdipendenti spuntano semiaddormentati da ogni portone, sbarcano da battelli gremiti in ciabatte e bermuda, o disarcionano scooter rumorosissimi che parcheggiano in strisce blu immaginarie, sul limite interno delle carreggiate.

Si destano i barman e i pianobarman, sputando nuvole di vapore riprendono vita i ventilatori.

Tonnellate di tarallini finto-pugliesi, scadenti, devastano interiora già provate da litri di prosecco annacquato. Fonzies, patatine ritoccate, frittatine di bucatini scotti, olive verdognole e pizzettine deformi, Tavolinia celebra la sagra dell’acidità di stomaco e del tasso alcolemico >3.

Alle 22 è alto il vocio di parole inutili dai dehors di Tavolinia, gossip e sigarette spingono i livelli di inquinamento acustico oltre quelli da biossido di carbonio e da plastiche per packaging.  

Al viaggiatore non resta altra soluzione che arrendersi e sedersi, in attesa che qualcosa si sblocchi che qualcuno apra un varco o l’architettura degli arredi urbani crolli sotto la spinta dei fuoriuscenti.

L’estate di Tavolinia scorre così giorno dopo giorno, fino a notte fonda.

Finché la città, piano, si spegne.

I ragazzi del turno serale riaccatastano tutto, sbottonandosi le camicie come un reggimento in ritirata, e, calata la saracinesca scompaiono nel nulla.

Il viaggiatore, sfinito, brillo, con l’ultimo briciolo di lucidità si divincola.

E prima che rifaccia giorno, si allontana.

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