IL PRODE ARCHITETTO PALADINO DEL PROVVISORIO

In questi giorni la torre Eiffel festeggia i suoi 130 anni di vita. Grazie ai suoi 324 metri di altezza svetta maestosa sulla capitale francese. Per costruirla l’ingegnere Eiffel impiegò due anni, due mesi e cinque giorni. Uno scherzo paragonato ai tempi apocalittici di oggi.

La maggior parte degli intellettuali parigini era contraria alla realizzazione dell’opera, la riteneva troppo moderna e per questo estranea all’atmosfera e alle radici storiche della città. Guy de Maupassant la odiava e proprio per questo si recava ogni giorno a pranzare nel ristorante ai piedi della torre: “questo è l’unico posto della città dove posso non vederla” diceva.

La torre venne realizzata per l’esposizione internazionale del 1889 con l’impegno di essere smontata subito dopo. In realtà la concessione del terreno sarebbe durata 20 anni e quindi la sua eliminazione era prevista per il 1909. Numerosi artisti parigini, immediatamente al termine dell’Expò, iniziarono a sollecitarne la distruzione. Forse era soltanto paura, la loro.

Ma giunti in prossimità dello scadere dei vent’anni, ci si accorse che nel frattempo la torre era diventata un’attrattiva turistica, nonché, grazie all’altezza, un sito strategico per il posizionamento di antenne per le telecomunicazioni civili e militari.

Insomma la torre Eiffel è rimasta al suo posto.

Così come altre opere scampate alla censura dei benpensanti grazie al trucco del provvisorio.

Celebre il caso della modifica dei “baffi” al molo d’ingresso della scogliera di via Caracciolo a Napoli per l’America’s Cup del 2012, da risistemare a regate terminate; ma figuriamoci!.

Per non parlare delle case temporanee affidati agli sfollati di varie epoche per differenti sismi, con la promessa di una rapida ricostruzione, nelle quali sono rimasti tutta la vita.

Va anche detto che ci sono anche celebri casi inversi. Architetture realmente provvisorie che sono state abbattute e poi ricostruite. Ad esempio il padiglione per l’esposizione universale del 1929 di Mies a Barcellona. Demolito l’anno dopo, riconosciutone il valore, venne rifatto tale e quale tra il 1983 e il 1986. Non solo Mies, tra gli architetti il provvisorio ha sempre goduto di ottima popolarità. Si pensi alle abitazioni temporanee realizzate per la V Triennale di Milano del 1933, dove gli architetti razionalisti sperimentarono il nuovo linguaggio moderno.

In mancanza di avanguardie da testare, oggi il provvisorio è tornato di moda per scansare la giungla di divieti che ostacolano qualsivoglia intervento.

E allora gli architetti che sono di stirpe tenace, mossi da grande spirito di sopravvivenza, vanno specializzandosi in robe temporanee. D’altronde chi meglio dell’architetto, che incarna la figura professionale precaria per antonomasia, può rappresentare la simbologia del provvisorio ?.

E poi chi crediamo di essere per stabilire il limite temporale tra stabile e provvisorio? Tutti noi, non siamo forse provvisori? E il pianeta terra, che esiste da centinaia di milioni di anni, non è anch’esso destinato a deflagrare?.

Partendo da questo assunto, per aggirare le maglie delle numerose burocrazie, commissioni locali del paesaggio, soprintendenze varie, ambientalisti, conservatori e avvocature di ogni specie; al prode architetto non resta che appellarsi alla temporaneità della sua opera

Ergersi a paladino del provvisorio; per sconfiggere i cattivi. E i codardi.

Tutto ciò che è passeggero, infatti, fa meno paura. La parola stessa, “provvisorio”, suona conciliante: contiene tracce di speranza, e aroma di democrazia. Inoltre suscita tenerezza. Abbastanza per far considerare quel manufatto un esperimento da valutare con tolleranza anche dai tanti custodi del “bello”, reale o presunto, che si pongono a difesa di qualsiasi cosa: panorami, periferie, centri storici ecc..

Inoltre per gli architetti, spesso tacciati di arroganza, proporre cose temporanee è anche un segnale di modestia. In tempi di insolenza e prevaricazioni, l’architetto che rimane umile, conquista consensi.

Anzi, se necessario, ad ogni progetto, ad ogni opera, l’architetto apporrà anche una data di scadenza. Come sulle buste del latte. Nella speranza che, poi, nel frattempo, il gusto o la legge cambi e che la gente si abitui, o venga distratta da altro.

In alternativa l’architetto può anche lavorare affinché la sua opera sia sempre in costruzione. Provvisoria poiché oggetto di un interminabile work in progress, come Tecla una delle città invisibili di Calvino.

Se niente di questo accade, allora a scadenza avvenuta, si ricorrerà ad un altro espediente, prettamente italico: quello della proroga.

E via così, in loop. Funziona!.

La storia insegna: “niente è più stabile di ciò che è provvisorio”.

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