AEREI DI CARTA

Quando ero bambino tutti i miei amici volevano diventare calciatori famosi.

Io invece no. Io, da grande, volevo diventare pilota di aerei.

Sognavo di superare le nuvole sospinto dai venti e, una volta lassù, esplorare il cielo.

Ma mia madre non voleva, lei voleva che io facessi tutti i compiti.

Così, mentre tutti i miei amici avevano iniziato ad allenarsi, io trascorrevo tutto il tempo chiuso in cameretta a riempire i miei quaderni con riassunti di narrativa e problemi di matematica.

A nove anni mi accorsi che non potevo più perdere tempo.

Accadde un giorno che, in cortile, durante la ricreazione, Tonio mostrò a tutti quanto fosse bravo a palleggiare con entrambi i piedi. Allora Giulio, per non essere da meno, scommise che avrebbe colpito con un tiro una bottiglietta posizionata in fondo alla cancellata.

Tutti pensammo fosse impossibile.

Invece Giulio la centrò in pieno. Al primo tentativo.

Tornai a casa angosciato. Mentre io continuavo a fare compiti, tutti gli altri, là fuori, si stavano troppo avvantaggiando.

Prima che fosse troppo tardi, dovevo assolutamente iniziare ad esercitarmi. Altrimenti, da un momento all’altro, mi sarei guardato nello specchio dell’armadio scoprendomi già troppo vecchio.

A quel punto addio nuvole e cielo, addio ai venti e al sogno di pilotare gli aerei.

Avevo bisogno immediatamente di un’idea.

E potevo trovarla solo nei miei quaderni.

Accadde un giorno: decisi che per inseguire il mio sogno, dopo aver terminato velocemente di fare i compiti, dal centro dei miei quaderni avrei strappato delle pagine e con quelle avrei costruito aerei di carta.

In breve diventai abilissimo.

Ero in grado di realizzare due modelli differenti. Un aereo dalla forma tradizionale, allungata, tipo Concorde, ed uno con il becco quadrato. Un profilo sconosciuto: lo avevo imparato da mio zio.

Il Concorde volava meglio e più a lungo, ma a me piaceva l’aereo senza punta, lo costruivo curando di far combaciare bene i bordi per poi ripiegarli sui margini in corrispondenza delle ali.

I miei aerei di carta, dopo aver inizialmente viaggiato tra le pareti della mia camera, approcciavano coraggiosi il cielo decollando dalla ringhiera del balcone e affrontandone le intemperie. Volteggiavano tra i piani del mio condominio e di quello di fronte, per poi avviarsi in picchiata. Talvolta, durante la china, viravano decisamente da un lato e risalivano di quota per alcuni metri, per poi precipitare dritti verso il suolo e là schiantarsi, sul marciapiede.

Purtroppo nessuno riusciva a raggiungere mai nemmeno il supermercato all’angolo.

Non era raro che alcuni di loro atterrassero, scansando la sua tenda a righe, sul balcone dell’inquilina del terzo piano, oppure su quello del secondo che apparteneva ad una casa sfitta. E là rimanevano, in attesa di una raffica giusta di vento che ne ridestasse il volo.

Ben presto i miei quaderni divennero brevi e sottili. Avevo bisogno di comprarne sempre di nuovi per poter costruire altri aerei.

Mia madre mi interrogava: «ma hai già finito un altro quaderno?».

«Mamma» rispondevo «è colpa dei compiti. Ne faccio tanti».

Mi dispiaceva mentire alla mamma, ma non avevo scelta.

Lei non voleva che io facessi il pilota d’aereo. Anche se in realtà non glielo avevo mai detto, sono sicuro che sarebbe stata contraria: mia mamma voleva solo che io facessi i compiti.

Tutti i compiti.

Continuai a costruire e a far decollare aerei di carta a lungo, finché decisi che i tempi fossero maturi per pilotarne uno.

La scelta del modello fu fatale.

Gli aerei Concorde, quelli “normali”, davano maggiori garanzie, ma io desideravo pilotare un aereo dalla punta quadrata. Non mi bastava essere un semplice pilota, desideravo esserlo di un aereo mai visto prima.

“Tutti sono in grado di pilotare aerei di carta normali” riflettevo.

Scelsi con attenzione le pagine da strappare: per il mio primo volo avevo bisogno di un aereo unico e resistente.

Quando l’aereo mi parve pronto, iniziarono i voli di addestramento. Era sorprendente: compiva evoluzioni tra l’armadio ed il letto planando dolcemente sul pavimento della stanza; se centrava una parete lo recuperavo, controllavo i danni e lo rilanciavo con fiducia.

Sembrava persino che apprendesse le traiettorie migliori.

Con una scatola di scarpe costruii anche un hangar, là riponevo l’aeromobile durante la notte, in modo che mia madre non lo scoprisse.

Intanto studiavo con attenzione il piano di volo cercando di considerare tutte le possibili variabili e le imprevedibili incognite.

Secondo le mie previsioni, inizialmente io e il mio aereo di carta avremmo volteggiato dolcemente tra i balconi, fino a virare decisamente verso il supermercato all’angolo. Da là, compiendo un giro di centottanta gradi, avremmo puntato verso il fiume per poi bordeggiare il crinale della collina. All’altezza della piccola chiesa del monte ci saremmo abbassati di quota per sorvolare la strada provinciale. A quel punto, sempre leggermente planando, avremmo raggiunto la spiaggia, dove saremmo atterrati felicemente in riva al mare.

Fuoriuscendo dalla cabina di pilotaggio, avrei trovato sulla spiaggia, attratta dal volo, una folla ad attendermi festante.

Anche i miei amici sarebbero accorsi, abbandonando per qualche minuto gli allenamenti. Anche Tonio e Giulio.

Sarebbe andata certamente così.

Ma fu al momento di partire, già sulla pista di decollo del balcone, che mi accorsi di aver bisogno di una spinta.

“Senza una spinta gli aerei non possono prendere il volo” pensai.

Ma non c’era nessuno che poteva aiutarmi.

In assenza di quell’impulso, forse avrei dovuto rinunciare alla prima virata, quella all’angolo del supermercato, o al bordeggio della collina. Pazienza: dopo un rapido giro tra i balconi avrei puntato direttamente sulla provinciale e da là verso la spiaggia.

A quel punto pensai che, probabilmente, sarebbe stato meglio effettuare il primo volo su un Concorde, più adatto alle traiettorie rettilinee. Certo, avrei attirato meno attenzioni, forse la folla all’atterraggio sarebbe stata meno fitta e non tutti i miei amici sarebbero venuti, ma in fondo si trattava solo del volo inaugurale e tanto sarebbe bastato.

Alla fama avrei pensato successivamente.

Ma erano tutte congetture di nessun valore.

Oramai era così che avrei effettuato il mio primo volo: su un aereo dalla punta quadrata e senza una ragionevole spinta.

Ero proprio sul punto di partire quando un’improvvisa raffica di vento sollevò la tenda a righe del terzo piano, facendo vibrare con forza le ali della fusoliera.

Il vento era una di quelle imprevedibili incognite che andavano vagliate.

Potevo rimandare: tornare in camera, riporre l’aereo nell’hangar e finire tutti i miei compiti.

“Lasciamo passare questa raffica” pensai invece.

Ma la raffica non passava, anzi il vento mi pareva che aumentasse.

Con quelle condizioni avrei dovuto rinunciare anche al passaggio a bassa quota dinanzi la chiesetta del monte; il vento mi avrebbe impedito di planare e sarei stato costretto ad un atterraggio brusco.

Mentre ero là ad attendere che tornasse il sereno controllai il piano di volo.

Rispetto all’ora prevista per il decollo, ero decisamente in ritardo.

Ancora pochi minuti e mia mamma sarebbe rientrata. Mi avrebbe trovato in bilico sulla ringhiera, già in cabina di pilotaggio. Oppure non mi avrebbe trovato affatto, impegnato nel viaggio, magari sulla spiaggia, tra la calca, a ricevere il meritato applauso.

Decisi che bisognava partire.

Mi sistemai in cabina e controllai i comandi sulla plancia. Afferrai la cloche con entrambe le mani e stavo per volgermi all’indietro quando una nuova, prepotente, raffica, sollevò l’aereo e me, separandoci dal balcone.

Il peso ci trascinò immediatamente verso il basso. Non mi scomposi: si trattava di un normale assestamento che, questo si, avevo previsto. Arrivammo fin quasi a sfiorare la tenda a righe. Quando le fummo troppo vicini tirai la cloche con forza e l’aereo di carta assecondò il comando. Evitammo la tenda, ma iniziammo ad avvitarci su noi stessi, fino a quando la prua quadrata dell’aereo di carta si volse pericolosamente verso il basso ed improvvisamente vidi il fondo del marciapiede avvicinarsi.

Poteva il mio primo volo concludersi con un indecoroso schianto?.

E i miei amici, la folla che si sarebbe dovuta radunare sulla spiaggia cosa avrebbe pensato?.

Mentre rimuginavo su questo, perdemmo ancora pericolosamente quota sorpassando anche la ringhiera della casa sfitta al secondo piano. Se avessi dotato il mio aereo di carta di un paracadute sarebbe stato esattamente quello il momento in cui spingere il pulsante per saltare fuori e salvarmi la pelle. Ma mai avrei pensato che il mio primo volo, in sostanza del tutto ordinario, avesse bisogno di un sistema di salvataggio riservato solo a timorosi quanto inadeguati piloti.

Tirai ancora verso di me la cloche, ma non fu quel movimento che ci risospinse, fortunatamente, verso l’alto.

Fu viceversa una nuova raffica di vento, violenta, che, prima scaraventò me e il mio aereo di carta verso il muro dell’edificio di fronte, quindi lo sollevò repentinamente facendolo scartare di lato più volte. Rividi la tenda a righe lungo il fianco destro mentre il marciapiede si allontanava.

Sembrava, a quel punto, che potessimo continuare il volo verso l’angolo del supermercato, ma una nuova folata ci tirò ancora più in alto. Quando l’aereo di carta fu nuovamente all’altezza del mio balcone un ultimo sbuffo, breve ma deciso, lo riportò in asse, dritto, nuovamente sulla pista di decollo.

In quel preciso istante il vento si placò.

Scesi dalla cabina di pilotaggio e rimisi l’aereo di carta nell’hangar.

Non eravamo atterrati sulla spiaggia, non avevamo costeggiato la provinciale e nemmeno svoltato l’angolo del supermercato. Tutto ciò che eravamo riusciti a fare lo aveva stabilito il vento.

“Nel volo bisogna considerare il segreto di ogni incognita” pensai.

Mia madre non si accorse di niente.

Né le dissi nulla di tutti i voli successivi.

Perché dopo quella, in tante altre occasioni decollai dal mio balcone.

Giunto nel cielo, io col mio aereo, volteggiavo sicuro tra i balconi, sfiorando la collina.

Passavo radente dinanzi alla chiesetta del monte e sorvolavo la provinciale.

Infine atterravo delicatamente in spiaggia dove c’era sempre una folla nuova ad attendermi.

Il vento mi spingeva, mi sollevava e mi teneva su. Se volevo, mi aiutava a scendere. Se non era ancora il momento, mi tratteneva tra le nuvole, da là ammiravo nel cielo migliaia di bambini come me, volare sui loro sogni.

Accadde innumerevoli volte.

Finché non diventai grande.

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