Non so a voi, ma a me, in quasi tredici anni di iscrizione, personalmente, l’ ordine degli architetti mi ha scritto (bollettini annuali da pagare esclusi) una volta soltanto. E’ stato qualche tempo fa; in una D.I.A. avevo sbagliato l’altezza di un pollaio, valutandola maggiore di quella che era in realtà. I geometri dell’ufficio tecnico, notoriamente custodi inflessibili della legalità, avevano subito emanato un’ordinanza di sospensione dei lavori e quindi spedito la segnalazione all’ordine. Dinanzi a tale fatto, di così elevata pericolosità sociale, evidentemente preoccupato che le galline potessero trasformare la loro galera in una suite, l’ordine, nella persona del presidente addirittura, pensò di convocarmi presso la propria sede “per dare le dovute spiegazioni”.
Avrei dovuto presentarmi, me lo ricordo bene, il pomeriggio di Italia-Paraguay, esordio della nazionale di calcio ai mondiali in Sudafrica. Ovviamente non andai, ritenni che in mio luogo fosse sufficiente l’effetto anestetizzante di una raccomandata. Magari i polli ci rimasero male (nel senso di pennuti, ma anche no) ma bastò. In fondo, come spesso capita nella vita, anche per l’ordine, siamo solo un numero di matricola, pensai, correttamente.
Tuttavia ci sono alcuni giorni, che si ripetono ciclicamente, durante i quali l’ordine si occupa di te in maniera davvero sincera e disinteressata. Sono i giorni del rinnovo del consiglio. Le votazioni sono annunciate da una lettera che compare nella tua cassetta della posta improvvisamente, nella quale il tono è pesantemente confidenziale; seguono tutta una serie di preamboli, quindi le date per il voto.
Da quel momento ogni architetto deve sapere che il suo cellulare verrà aggredito da numerosi sms di numeri sconosciuti, ma qualcuno si spinge oltre e ti telefona. C’è chi ti raggiunge per una via trasversale lungo un percorso di natura genetica-parentale: “ciao, sono il cugino dello zio…ecc.”, altri si affidano al consueto rapporto ipocrito-professionale: “…ho lavorato con tale che mi ha parlato bene di te”, taluni, per timore di smentita, sfoderano amicizie senza possibilità di contraddittorio “io ero un amico carissimo di …purtroppo venuto a mancare….”, o si accontentano di semplici amicizie con persone che conosci pochissimo, i più audaci tentano anche la carta nostalgico-universitaria: “ti ricordi ? Abbiamo seguito insieme il corso di ….”. Ma la vera partita si gioca al seggio.
Quando camminate in una città e vedete un capannello di gente ben vestita (non di nero) dinanzi ad un portone di un fabbricato di medio-alto pregio, di solito è là che si svolgono delle elezioni di qualche cosa. La prima strategia dei candidati è sorvegliare tutte le strade di accesso per intercettarti prima dei concorrenti. A 200 metri puoi trovare il primo posto di blocco, spesso ti si avvicina un tizio che non hai mai visto in vita tua che ti punta un indice sulla faccia ed esclama “architetto !” l’imbarazzo di sentirsi scoperto ti ammutolisce quei tre secondi che permettono al candidato di passare al tono più confidenziale: “ciao”, ti dice con voce calda, “sono…. mi candido per la lista… Abbiamo bisogno anche del tuo aiuto. Mi raccomando”. Poi ti stringe la mano come tu la stringeresti al papa in udienza privata, che bisogna fare uno sforzo per liberarsi. Dinanzi al portone dell’ordine è tutto un sorridere, pacche sulla spalla, bigliettini infilati in tasca, mani da stringere, strizzate d’occhio e numeri di cellulare che vanno e vengono. Mano a mano che ti avvicini al seggio il tono di collegialità aumenta.
Sulle scale ti abbracciano come i lebbrosi con Madre Teresa di Calcutta. Qualcuno che non hai mai visto prima, ti bacia affettuosamente, altri si informano sulla tua vita personale, ti raccontano gioie e dolori della propria; questa fase, cioè il passaggio tra l’androne del palazzo e l’ingresso alla sede dell’ordine, se ti lasci coinvolgere emotivamente, può durare anche delle ore. Un mio collega è entrato alle 15.30, ha votato alle 20 e ha concluso la serata in un festino hard per un addio al celibato di un tizio che prima manco conosceva.
Quando entri nella sede dell’ordine c’è uno strano silenzio. Noti immediatamente che il “mammasantissima” è seduto in un angolo, collassato su una poltrona in pelle morbida, l’unica disponibile, con un espressione di quello che ne ha viste tante, vorrebbe ritirarsi, ma si sa che lo fa per aiutare i ragazzi giovani, perché lui ai giovani ci tiene moltissimo. Quelli che sono all’interno della sede, per regolamento, non possono parlare, ti fissano come per dire “tu hai capito già…”, oppure “non fare sciocchezze…”, ci sono anche gli sguardi minacciosi del “io so chi sei…”.
Prima di entrare nel seggio, ovvero nel corridoio, c’è il girone dei disperati, quelli che ti sfiorano una spalla come i mendicanti al supermercato e ti sussurrano all’orecchio frasi come: “votami, ti prego”. Che io personalmente mi sono domandato: “ma può un architetto ridursi in questo stato ?! Non sarebbe meglio trovarsi una qualsiasi altra occupazione ?”.
Il voto può durare anche molto tempo. Ti dotano di una penna e di un foglio bianco con quindici righe orizzontali, con la preghiera di riempirlo tutto, neanche fosse la formazione del Napoli scudettato di Maradona, operazione che sarebbe impossibile senza portare con sé un promemoria. Quando hai finito ed esci, ti accorgi che il tuo momento di gloria è definitivamente terminato. Qualcuno ti guarda con disprezzo, quello di prima che ti ha baciato ora sta baciando un altro ancora con maggiore trasporto, un “lebbroso” sulle scale, ha sbagliato bersaglio e si è attaccato ai pantaloni di un condòmino del palazzo che abita al quarto piano e non c’entra niente con gli architetti.
Così, ti allontani nell’indifferenza più assoluta, dalla quale uscirai, se avrai regolarmente pagato tutti i bollettini, solo alle prossime elezioni. Altezze dei pollai permettendo.