UNA MATTINA

Una mattina, quella del 25 aprile del 1945, dalle frequenze di Radio Milano Liberata, Alessandro Giuseppe Antonio Pertini, per tutti Sandro, diffuse un proclama invocando lo sciopero generale contro l’occupazione dei nazi-fascisti, intimandogli la resa condizionata a favore degli alleati.

Ponete i tedeschi dinanzi al dilemma” intimo: “Arrendersi o perire“.

Fu l’ultimo atto prima della liberazione della città di Milano, nel giorno che da allora viene festeggiato come quello “della liberazione”.

Pertini allora aveva 48 anni, poco più della mia età oggi, e la sua vita era già stata costellata da una lunga serie di peripezie.

Dopo aver combattuto, poiché costretto (era schierato dalla parte dei neutralisti) sul fronte dell’Isonzo nella prima guerra mondiale partecipò al congresso di Livorno del 1921 con la scissione del partito comunista, dal quale fuoriuscì aderendo al partito socialista unitario.

Arrestato una prima volta nel 1925 per aver stampato e diffuso un opuscolo antifascista, fu condannato a otto mesi. Liberato, fu costretto ad espatriare in Francia per sfuggire alla leggi “fascistissime” che (tra le altre cose) sottoponevano a controllo e censura tutta la stampa.

In esilio, prima da Nizza, poi da Parigi e successivamente da Ginevra continuò a guidare la dissidenza.

Rientrato in Italia, fu arrestato nuovamente nel 1929 a Pisa e recluso prima di Santo Stefano, quindi a Turi, poi a Pianosa, Ponza e infine spedito nel confino di Ventotene. Dal quale fu liberato poco dopo la caduta del fascismo, grazie ad un provvedimento del governo Badoglio, il 13 agosto del 1943.

Per un totale di 14 anni di detenzione.

Due mesi dopo, al termine di una riunione del partito socialista, Pertini fu nuovamente arrestato, rinchiuso a Regina Coeli e condannato a morte. Evase dal carcere grazie ad un’incredibile quanto audace azione dei partigiani che riuscirono ad ingannare la questura militare.

Dopo la liberazione di Roma, procuratosi un documento falso si recò al nord Italia dove, unendosi ai partigiani, organizzò, tra le altre, l’insurrezione decisiva di Milano.

Dopo la guerra, nel 1946, fu deputato nell’Assemblea costituente, quindi in parlamento ininterrottamente dal 1953 al 1976. Fu due volte presidente della camera, quindi venne eletto presidente della repubblica l’8 luglio del 1978. Morì a Roma nel 1990.

Durante il confino di Ventotene, Sandro Pertini conobbe altri antifascisti molto noti quali Di Vittorio, Camilla Ravera (che da Presidente della Repubblica nominò senatrice a vita nel 1982, prima donna in assoluto), Giorgio Amendola, ma anche Spinelli, Rossi e Colorni autori del “Manifesto di Ventotene”, considerato la base per la costituzione dell’unione europea.

Negli anni di confino sull’isola pontina si batté per i diritti dei suoi sodali, per avere cibo e cure per i tubercolotici; il suo più grande cruccio era di non poter rivedere la mamma malata che viveva a Savona. Finché riuscì a strappare un permesso.

L’episodio è narrato in “La macchina del vento”  di Wu Ming 1 (Einaudi, 2019).

«Il 9 settembre del ’41 Pertini partì per il continente, i ferri ai polsi e la catena alle caviglie, chiuso nel piroscafo fino a Napoli, dove lo portarono alla stazione e lo misero in un vagone cellulare diretto a Roma, con una scorta di cinque carabinieri. Arrivarono in tarda serata e Sandro fu tradotto a Regina Coeli, dove passò la notte in isolamento. Poche ore su un tavolaccio, tra muffa e cimici, e prima dell’alba di nuovo incatenato, portato all’ultimo binario della Tiburtina, infilato su un vagone cellulare diretto a Genova (…) fino a Savona (…) Su una carrozza scortata da carabinieri a cavallo, lo tradussero al carcere di Sant’Agostino, dove lo rimisero in isolamento.

(…) l’ho vista di fronte a me, piccola, curva i capelli bianchissimi, vestita di scuro.

“Sandro” mi dice e subito si mette a piangere, arranca verso di me e mi getta le braccia al collo.

Si può colmare in pochi minuti un buco, anzi, una voragine di affetto negato, di abbracci mancati? Poi il capo delle guardie ci interrompe, sgarbato e arrogante: “Va bene basta così. Accompagnate fuori la signora e scortate il prigioniero in cella”, e la portano via che ancora singhiozza.(…)

La mattina tornano a prendermi, io spero di rivedere mia madre, ma il capo mi dice, sprezzante: “E quanti colloqui pretendete? La procura ve ne ha accordato uno solo. Adesso vi riportano alla stazione” (…) Due giorni da quando sono partito, altri due mi attendono prima di rimettere piede a Ventotene, e ho passato con mia madre soltanto una ventina di minuti, guastate dalle occhiate degli sbirri e dai loro respiri che ci toglievano l’ossigeno. E lo so, lo so bene che non la rivedrò più. Mai più. Sia maledetto il fascismo. Siamo maledetti i fascisti. Dal primo all’ultimo».

Qualche tempo fa un noto uomo politico italiano, tre volte presidente del consiglio, disse che Mussolini non aveva mai ammazzato nessuno e che quella al confino era una vacanza, una sorta di “villeggiatura”.

Una parola usata non a caso.

Giacomo, voce narrante del libro, così racconta.

«Quando ci spostarono nei nuovi padiglioni, nessuno poté più sgattaiolare, perché ci rinchiudevano con spranga e catenaccio. D’estate, dovevamo esser dentro alle nove di sera. Nella mezza stagione, alle otto, D’inverno, alle sette. Sul continente la stampa del regime faceva sarcasmo, scriveva che il fascismo mandava gli oppositori “in villeggiatura”. Ecco, era questa la villeggiatura.

La memoria dei prigionieri, le violenze, i pestaggi, le privazioni, le ingiustizie di quegli anni nella storia dei confinati, aleggiano ancora lungo le stradine dell’isola di Ventotene.

La biblioteca, la mensa, la piazza con l’orologio, il percorso di soli 700 metri lungo il quale i prigionieri potevano muoversi. Il porto dove attraccavano i piroscafi con le provviste e i nuovi reclusi. L’angosciante sagoma del carcere di Santo Stefano all’orizzonte.

Nell’estate del 2019, a Ventotene, ho incontrato Roberto Bui (vero nome di Wu Ming 1, del collettivo Wu Ming). Raccontò che per scrivere “La macchina del vento” aveva impiegato diversi anni e per un periodo, nel desiderio di concluderlo, aveva deciso di trasferirsi sull’isola. Solo così era riuscito ad entrare nella testa dei personaggi, a sentire quel soffio di inconsapevolezza, i rintocchi che furono la leva del riscatto.

Il sogno di ogni potere è di rinchiudere il tempo in uno spazio recintato. Di imprigionarlo dietro fili spinati, alzargli muri intorno, contrapporgli barriere. Il potere è sempre disonesta appropriazione, furto dei diritti, esproprio del futuro. Eppure sull’isola di Ventotene, spinti dal vento della speranza, si formarono i migliori esponenti della resistenza italiana e poi della liberazione e della repubblica.

Conoscere la storia non è solo importante. E’ decisivo. E’ l’unica cosa che conta davvero. Per evitare che venga mistificata, che qualcuno la racconti diversa, che i crimini siano dimenticati.

Oggi 25 aprile, fate qualcosa per la resistenza della memoria: cercate in libreria “La macchina del vento”.

(P.S.: Pertini riuscì a rivedere la madre, nuovamente, per tre giorni nell’agosto del 1943, poco prima che morisse).

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