L’ARCHITETTO COL REDDITO DI CITTADINANZA

Molti ritengono che l’architettura in Italia sia in crisi per una questione ideologica. Per la mancanza di tensione emotiva, per la burocrazia eccedente, la mancanza di opportunità e per la conseguente “fuga dei cervelli”.

Non è così.

Oggi in Italia l’architettura è in crisi per altri motivi: essenzialmente due.

Innanzitutto perché gli architetti, da almeno un paio di anni, sono tutti impegnati e costretti a fare le pratiche del superbonus e quindi non hanno più tempo per dedicarsi all’aggiornamento, alla ricerca e alla sperimentazione. E non lo avranno neanche in futuro perché finiranno tutti o sul lastrico o in galera per asseverazioni che l’agenzia delle entrate riterrà mendaci.

E poi perché, e questo è il vero motivo, in giro non si trovano più architetti, poiché la maggior parte di loro preferisce percepire il reddito di cittadinanza piuttosto che lavorare.

Lo dicono le statistiche.

L’architetto a partita iva è uno dei principali percettori di RDC al pari dei caregiver e dei poveri balneari.

Tuttavia e purtroppo l’architetto che percepisce il RDC, pur avendo tutti i requisiti, è vittima di una spregevole campagna di odio sociale.

Secondo i mal pensanti, grazie al RDC gli architetti preferirebbero starsene comodamente sul divano a guardare le repliche di “A te le chiavi” con Paola Marella, leggere “Le città invisibili” di Calvino o a sorvegliare i cantieri per gli scavi delle metropolitane, piuttosto che fare il finto dipendente in uno studio, 12 ore al giorno a 500 euro al mese, senza rimborsi spese, malattia, ferie e contributi, o partecipare a stage gratuiti in aziende dove il capo gli dice che “il periodo è brutto assai” agitandogli sotto il naso il suo Patek Philippe (capo che, fraudolentemente, percepisce egli stesso un RDC).

Sembra strano che gli architetti, specie quelli giovani, rinuncino a questo tipo di carriere così promettenti e prestigiose, ma la triste realtà è questa.

Dunque la colpa non è né del RDC né del mercato del lavoro, ma degli architetti che vorrebbero diventare subito archistar ma purtroppo sono choosy e poco disposti al sacrificio.

E così, trafelati, imbarazzati, una volta al mese, si mischiano nelle file degli sportelli postali per il ritiro della somma. Nascondendo l’apposita tessera tra quelle dell’ordine e della Feltrinelli.

E’ facile individuarli.

Si riconoscono, temprati da anni di catasto, dalla pazienza con la quale tollerano le code.

E dagli apprezzamenti sulla spazialità della sala che fanno in taluni uffici di stampo razionalista, lodando i tagli di luce e la pulizia delle forme, naturalmente tra lo stupore e l’incomprensione dei presenti.

Parte del sussidio, l’architetto col RDC, subito l’accantona per il pagamento del suo principale e fedelissimo creditore, ovvero Inarcassa. Che l’architetto, chiaramente vittima di una forma particolare di sindrome di Stendhal, continua a stimare perché è l’unica che, nonostante tutto, ancora lo considera un benestante e come tale lo tratta.

Un’altra minima quota l’architetto la reinveste per rimanere almeno teoricamente sul mercato, quindi per dotarsi di tutte le strumentazioni necessarie a riprendere un giorno l’attività, come ad esempio la firma digitale e una tessera del partito di maggioranza, non sia mai arrivasse una telefonata del proprio «Navigator» che gli offre la progettazione di un grattacielo a Milano City Life.

Prospettiva improbabile, visto l’alto numero di architetti che, riciclati come «Navigator», tratterebbero per sé l’incarico.  

Ai detrattori del RDC bisogna rispondere che è solo grazie a questo strumento che numerosi architetti riescono a tenere aperta la propria partita iva, sostenere il welfare e soprattutto ad evitare errori fatali nei cantieri di scavo delle metropolitane.

Purtroppo per gli architetti il dispositivo del RDC, come le repliche di “A te le chiavi”, è destinato ad esaurirsi a differenza delle pratiche del superbonus che dureranno fino alla completa estinzione della specie.  

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(L’immagine è tratta dal sito laleggepertutti.it)

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