LA PARTITA

Se per la generazione nata tra gli anni quaranta e cinquanta, “la partita” è stata senza dubbio Italia-Germania 4 a 3, semifinale dei campionati mondiali del 1970, per la generazione successiva, quella che oggi balla tra i 45 e i 55 anni, non ci sono dubbi: “la partita” si è giocata dodici anni dopo.

Se amate il calcio e siete di questa generazione, ma anche se siete un po’ più giovani (e persino se il calcio non è il vostro sport preferito!) non potete perdervi “La partita” il romanzo di Italia-Brasile, opera straordinaria ed enciclopedica di Piero Trellini (Roma, 1970), giornalista e scrittore che ha lavorato, tra le altre cose per “Repubblica”, “La Stampa” e “Il Messaggero”.

Quella per Italia-Brasile 3 a 2, partita che permise agli azzurri di vincere il “gironcino” a tre (con l’Argentina a fare da comparsa) e raggiungere la semifinale del mondiale di calcio, poi vinto, nella torrida estate spagnola del 1982, è stata, per sua stessa ammissione, un ossessione per Trellini, che ha accumulato per anni materiale su quell’incontro.

Giornali, riviste, interviste, aneddoti, archivi svaligiati e ricerche a ritroso fino a scavare dentro le vite di giocatori, arbitri, giornalisti, dirigenti sportivi, fotografi e chiunque avesse avuto un qualsiasi legame con quella partita giocata il 5 luglio del 1982, a Barcellona, in uno stadio, il “Sarrià” successivamente demolito, davanti a 44mila spettatori; un’inezia considerata l’importanza dell’incontro e il prestigio degli interpreti.

La storia, 600 pagine da leggere in un sorso, inevitabilmente, ruota intorno alla figura del commissario tecnico Enzo Bearzot, uomo d’onore, dalla granitica moralità, in grado di difendere le sue scelte fino alle più estreme conseguenze. Su tutte quella di credere in Paolo Rossi, centravanti dalle ginocchia d’argilla, rientrato dopo due anni di squalifica per calcio scommesse e preferito, tra lo stupore generale, al capocannoniere del campionato, Roberto Pruzzo.

I giudizi impietosi dei giornalisti, praticamente tutti, che di Bearzot ne dissero di ogni. E non solo di lui. Anche della squadra, costretta a chiudersi in silenzio stampa (il primo della storia del calcio) per difendersi dagli attacchi della stampa che l’aveva definita “L’armata Brancazot”.

In un’Italia lacerata da un decennio di lotte sanguinose, attentati e tormenti, con un governo “balneare” in carica (quello di Spadolini, che cadrà quella stessa estate) ma con un presidente della Repubblica, Pertini, amatissimo, icona di compostezza e serietà.

Dall’altro lato il Brasile del “quadrato magico”, il centrocampo stellare composto da Falcao, Socrates, Cerezo e Zico, la geometria offensiva di una squadra che ballava calcio sulle sponde del centrattacco Serginho e i missili del mancino Eder (non a caso detto “o’canhao”, il cannone). Alla guida di questa corazzata, Telè Santana, l’allenatore carioca più vincente della storia, che in 52 panchine perse solo due partite ufficiali (oltre “la partita”, la finale del mundialito 1981 contro l’Uruguay) e due amichevoli, pareggiando il quarto di finale contro la Francia ai mondiali messicani del 1986 (eliminato ai rigori), ultima sua gara da CT.

O ancora, l’incredibile vicenda del portiere Waldir Peres che con la nazionale verdeoro giocò 27 gare senza mai incassare più di un goal, e mai perdere, tranne, ovviamente quel giorno, quando la tripletta incassata da Rossi gli valse il soprannome di “O’Franguiero”, il pollo.

Destino crudele, come quello, di Giancarlo Antognoni, mezzala e bandiera della Fiorentina di classe cristallina, che a due minuti dal termine realizzò il goal del 4 a 2, ingiustamente annullato e guardò la finale dalla tribuna per un pestone di Matysik mediano polacco che in semifinale gli fratturò un dito del piede. Vittima dell’”invidia degli Dei”, avrebbe detto Erodoto. E dire che a quel mondiale Antognoni non doveva neanche esserci. Nell’ottobre dell’81, il portiere del Genoa, Martina, con un’uscita kamikaze gli aveva fratturato le ossa del cranio mandandolo in arresto cardiocircolatorio per un infinito minuto. Salvato dai medici sociali, si rimise a fatica, ma Bearzot, che lo aveva già voluto al mondiale argentino del 1978, lo attese.

E i baffi. Quelli del diciottenne Bergomi, detto “lo zio” (soprannome datogli da Marini, che alla sua prima apparizione negli spogliatoi lo accolse con un “sembri mio zio”) che entrò ne “la partita” dopo 37 minuti per sostituire Collovati, ma che prima di allora con la nazionale aveva giocato solo un’ora, in un’amichevole tre mesi prima. E di Gentile, detto “Gheddafi” per i suoi natali libici, che se li fece crescere per scommessa, contro quattro giornalisti delle più prestigiose testate italiane, ammonendoli, tra le loro risa “me li taglierò quando saremo in semifinale”, e così fece.

E poi naturalmente la storia di Paolo Rossi, sospeso per aver parlato e liquidato, il tutto in 10 secondi, due “traffichini” prima di Avellino-Perugia del 30 dicembre 1979, nella hall del “Lloyd baia hotel” di Vietri sul mare, che volevano concordare un pareggio lasciandogli la possibilità di fare anche due goal, che lui purtroppo, inconsapevole, fece davvero.

O quella di Zoff, che trattiene sulla linea, all’ultimo minuto il colpo di testa di Oscar, lasciando il pallone là per mostrarlo bene all’arbitro, memore di un’altra parata identica, effettuata contro la Romania, in amichevole, dieci anni prima, ma giudicata inutile dall’arbitro che, ingannato dal movimento a ritrarre la palla verso il corpo del portiere, convalidò la rete.

Invece quella volta l’arbitro Klein, non si fece ingannare. Primo direttore di gara ebraico di una gara di coppa del mondo (Inghilterra – Brasile nel 1970), ebbe il coraggio nel 1978 di negare un rigore all’Argentina del regime dei colonnelli proprio contro l’Italia che poi vinse quella gara. Accettò di arbitrare ai mondiali di Spagna solo dopo aver saputo che il figlio, partito per combattere nella guerra in Libano, stava bene ed aspettava di vederlo in tv. Per protesta contro la sua nazionalità, “La partita” non fu trasmessa nei paesi arabi.

Queste e altre mille storie, del prima, del durante e del dopo “la partita”, reggono la trama del romanzo di Triellini, il calcio raccontato in ogni suo dettaglio, non solo sportivo. Perché il calcio è solo uno dei mille corollari del mondo e dei suoi innumerevoli intrecci, di vicende lontanissime che improvvisamente si incontrano.

Dopo quella gara, dopo quel mondiale, il calcio non fu più lo stesso. L’ingresso degli sponsor, i diritti televisivi, i contratti, i procuratori, i campionati sfalsati, i mondiali venduti ai mercati migliori.

“La partita”, racconta Triellini, è lo spartiacque, dopo quel 5 luglio del 1982, tutto cambiò. Il Brasile voltò pagina, le regole delle democrazia che il capitano Socrates aveva voluto nel suo Corinthias si insinuò nella testa dei suoi connazionali, fino a rovesciare la dittatura militare, nel marzo del 1985. Anche il modo di fare calcio del Brasile da quel giorno non fu più lo stesso.

L’Italia perse il suo sguardo disincantato, il calcio scoprì di essere un’industria, i quotidiani sportivi smarrirono l’innocenza e la loggia P2 sciolta e processata, smise di muovere i fili della macchina di stato. Anche i nostri anni ’80 iniziarono quel giorno.

Trellini ha scritto un capolavoro del genere. Imperdibile.

Dimenticate ogni altro libro sullo sport che avete letto: leggete questo.

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