ALFREDO, IL CUGINO

Se non sono diventato un calciatore di serie A, probabilmente della nazionale e ovviamente ricchissimo, la colpa è di Alfredo, il cugino. D’altronde Alfredo, il cugino è ritenuto il responsabile di numerose avversità e disgrazie avvenute all’interno della nostra famiglia in un arco temporale di circa venti anni.

Era cugino, ma non si sa di chi.

Ogni volta che qualche sciagura lo coinvolgeva, i miei si palleggiavano la parentela.

Come al solito la colpa è di Alfredo, tuo cugino” diceva mia madre.

E’ cugino pure a te” rispondeva mio padre.

Di sicuro non era cugino a me, per fortuna.

Per anni sono stato persino convinto che la canzone “Colpa d’Alfredo” fosse stata dedicata a lui.

Naturalmente io, Alfredo, il cugino, l’ho sempre odiato. Solo sentirlo nominare mi faceva venire il nervoso. D’altra parte io a dodici anni odiavo tutti, in particolare i parenti e temevo che prima o poi l’alone di malasorte che Alfredo il cugino si portava appresso mi avrebbe riguardato.

A quel tempo giocavo spesso ai giardinetti col pallone. Avevo un piede sinistro davvero ben educato.

Giocavo da solo perché i miei coetanei si erano iscritti alla scuola calcio e andavano agli allenamenti al centro sportivo. Ovviamente odiavo anche loro.

Un giorno mi si avvicinò un uomo in tuta ginnica e scarpette bianche da tennis. Mi disse di chiamarsi Luciano e di essere un allenatore di calcio in pensione, poi mi chiese se giocassi già in qualche squadra, io risposi di “no”. Mia madre respingeva ogni mia richiesta al di fuori dell’ambito scolastico.

Inoltre da ragazzo, Alfredo, il cugino giocando nel cortile di casa si era rotto il malleolo e da quel momento ogni volta che un componente della famiglia intendeva praticare qualsiasi sport, l’episodio veniva utilizzato come monito.

Luciano venne a vedermi altre volte, finché a sorpresa si presentò a casa per parlare con i miei.

Suo figlio è davvero bravo” disse a mia madre che lo guardava in cagnesco.

Lo faccia venire alla scuola calcio. Quest’anno abbiamo una promettente squadra di esordienti. Con quel mancino può giocare sulla fascia sinistra”.

Deve studiare. Quando avrà finito la scuola potrà giocare a pallone”.

“Si possono fare entrambe le cose” le rispose Luciano.

Il calcio è pericoloso. Un nostro parente si ruppe il malleolo…” rincarò mia madre “…e poi il ragazzo deve prendersi prima il diploma di geometra, dopo se ne parla”.

Tentai di farmi aiutare da mio padre, che però non mi fu di nessun conforto.

E’ inutile. Presto al posto del campo da calcio faranno le case popolari” sentenziò.

Per fortuna Luciano non aveva intenzione di mollare.

Tanto fece che strappò una promessa ai miei genitori: se quel quadrimestre avessi raggiunto la sufficienza in tutte le materie, mi avrebbero fatto giocare nella squadra degli esordienti.

Tanto non ce la farà mai” pontificò mia madre.

A quel punto si verificò forse una specie di miracolo, una congiunzione astrale, una serie di fortunate coincidenze irripetibili o, molto più probabilmente, Luciano conosceva tutti i miei insegnanti.

Quando portai la pagella a casa mia madre quasi sveniva, incredula ma a quel punto non poteva più tirarsi indietro. Una promessa è una promessa. Tuttavia non avevo mai giocato su un campo da calcio.

La prima volta che provarono a farmi giocare una partita di allenamento, mi persi lungo la fascia sinistra e trascorsi 40 minuti a correre avanti e indietro senza mai toccare la palla. Mi vennero a recuperare al triplice fischio, stremato riportandomi negli spogliatoi a braccia.

Ma Luciano restava ottimista.

Disse: “La vita dell’ala è dura. Ma non temere: in un paio di settimane sarai pronto”. E infatti dopo due settimane, grazie ad un’epidemia collettiva di influenza, venni convocato per la partita della domenica successiva.

Ero emozionatissimo. Mi ricordo che quella notte non chiusi occhio. Continuavo a svegliarmi in preda all’incubo di essere nuovamente dimenticato sulla fascia sinistra. Sognai anche Boniek che mi dava dei consigli su come evitare il fuorigioco.

La mattina del sabato mi alzai dal letto smanioso di comunicare la notizia ai miei. Li trovai entrambi in cucina, silenziosi.

Mio padre mi venne incontro con l’aria mesta.

E’ morto” mi disse

ma chi?” risposi.

Alfredo, il cugino”.

L’avevano trovato in fondo ad un fosso, lungo una strada interna; si era capottato con la sua «Ritmo» bianca turbo diesel.

E finalmente! Ci siamo tolti il pensiero” avrei voluto dire.

Domani mattina, alle nove bisogna andare al funerale” aggiunse mia madre appoggiata al frigorifero.

Provai a protestare, spiegai ai miei che per quella domenica era previsto il mio debutto nel prestigioso campionato di calcio categoria “Esordienti”, che l’allenatore mi aveva affidato la maglia numero 7, che avrei giocato titolare sulla fascia sinistra, ma mio padre fu inflessibile.

Ci sarà la famiglia al completo. Non possiamo mancare… facciamo brutta figura!”.

Io Alfredo, il cugino lo avevo sempre odiato ma in quel momento lo odiavo molto di più. Era stato persino capace di morire nel giorno sbagliato.

Passai l’intera giornata a fare calcoli sui tempi: la partita era alle 11 e il campo da calcio era a circa un chilometro dalla chiesa. Quanto tempo dura un funerale? Massimo un’ora, un’ora e un quarto a voler esagerare. In fondo si tratta solo di benedire un morto dentro una cassa di legno. Quattro parole di consolazione per i parenti e amen. Si, tutto sommato avrei potuto anche farcela. Potevo andare al funerale,tornare a casa, recuperare la borsa e correre a fare il mio esordio nel mondo del calcio.

D’altronde tutti gli inizi sono complicati. «La vita dell’ala è dura» ma da quel momento in poi, tolto di mezzo Alfredo, il cugino, la strada sarebbe stata completamente in discesa.

Il giorno dopo alle 9 eravamo tutti schierati all’ingresso della basilica in attesa del feretro di Alfredo, il cugino. La bara, causa imprevista autopsia, arrivò con mezz’ora di ritardo.

I becchini scaricarono la cassa senza nessuna attenzione. La portarono in chiesa e scapparono fuori a fumare. Sul coperchio della bara campeggiava una foto spensierata di Alfredo, il cugino, incastonata in un ovale di ottone lucido.

Il sacerdote era un anziano balbuziente, per cui i tempi di recita della messa, inevitabilmente, si dilatarono. Io non stavo più nella pelle, guardavo incessantemente l’orologio e odiavo Alfredo il cugino ancora più di quanto non lo avessi odiato da vivo. All’”Eterno riposo” erano già le dieci e mezza e quando sembrava tutto finito, un cugino di Alfredo, il cugino volle dire «due parole». E a ruota, vollero partecipare a quei saluti anche alcuni zii, e infine due amici.

Li odiavo tutti.

Quando uscimmo dalla chiesa erano quasi le 11. Ero disperato, a quell’ora i miei compagni di squadra erano già in campo per il riscaldamento.

Eravamo praticamente pronti per tornare a casa, quando la madre di Alfredosvenne di schianto sul selciato dinanzi al carro funebre. Mio padre la sollevò poggiandola sulla panca dedicata a padre Pio che troneggiava nel cortile della chiesa. Passò qualche minuto finché la donna, riaprendo gli occhi, scoppiò a piangere strepitando: “portatemi al cimitero. Portatemi al cimitero, vi prego”. E così andammo tutti al cimitero dove se la presero veramente comoda.

Solo alle 12.45, cioè mentre verosimilmente l’arbitro stava per fischiare la fine della partita, la bara fu calata nella fossa.

I miei genitori, il prete che «incacagliava» e la vecchia, raccolsero dei sassolini e li fecero cadere sulla cassa.

A quel punto anch’io raccolsi le due pietre più grandi che mi erano a tiro e mi avvicinai al fosso, desideravo scagliarle sulla foto di Alfredo, il cugino, e centrare in pieno il suo viso spensierato da idiota. Ma arrivato sul bordo, il terreno friabile cedette ai miei piedi e così feci un volo di due metri centrando, in pieno, con i denti l’ovale di ottone lucido.

Mi tirarono su con le stesse funi con le quali avevano calato la bara. Avevo perso un incisivo, perdevo sangue dalla bocca e non riuscivo più a stare in piedi.

Mia madre rivolgendosi a mio padre disse: “Come al solito la colpa è di Alfredo, tuo cugino”.

“Era cugino pure a te” rispose mio padre.

Mi portarono d’urgenza all’ospedale. Mi ero frantumato il piatto tibiale della gamba sinistra e due costole.

Il signor Luciano con la sua tuta ginnica e le scarpette bianche da tennis, venne ad incoraggiarmi.

La vita dell’ala è dura” mi disse “Ma non avere paura, ti aspettiamo l’anno prossimo per il campionato Allievi. La fascia sinistra rimane la tua”.

Ma, a settembre, al posto del campo da calcio trovai un cantiere edilizio e sulla fascia sinistra un lungo scavo di fondazione.

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