ALFREDO E LA STRADA

la stradaDa più di cinquant’anni Alfredo percorre la statale 63: venti chilometri e quattrocentotrenta metri di brevi sali scendi, tra la sua casa in campagna e la città. Una lingua sottile di asfalto, da dove si può vedere il mare, il tramonto e l’alba, il rivolo dei fiumi andare a valle, la neve sulle colline quando è inverno e fa davvero freddo.

Probabilmente il primo dei ricordi di Alfredo è legato a quella strada: c’è lui che ha 5 o al massimo 6 anni ed è sprofondato nel sedile di dietro di una Fiat 1100. La guida suo padre che porta la madre a comprare un bel vestito ai grandi magazzini. C’è Alfredo che vuole stare avanti per vedere la strada, ma il padre non vuole e allora lo sistema là, su un posto così basso che non ci si può neppure sporgere dal finestrino.

Papà vai più veloce” dice Alfredo. “No Alfredo, su questa strada più veloce di così non si può andare” risponde il padre, “ricordatiper ogni strada c’è una velocità giusta“. E allora Alfredo non gli chiede più di accelerare.

Era quella la strada dell’incoscienza ma anche della gioia, quando il papà gli prometteva che se stava buono gli avrebbe comprato un regalo, oppure un gelato. Stare buono significava che Alfredo doveva cercare di non sentirsi male tra le curve e il puzzo della plastica dei seggiolini. Alfredo, fermo, immobile sul sedile di dietro si concentrava, cercando di non muovere neanche la testa, perché se cominciava a spostarsi allora gli veniva da vomitare e addio regalo. La strada era resistenza, forza di volontà, concentrazione. Ma anche l’amore dei suoi genitori e la speranza di mangiare un gelato.

Quando Alfredo ebbe tredici anni, fu costretto ad allontanarsi dal suo paese per andare a studiare in città.

Ricordava ancora perfettamente quel mattino di Settembre, il suo primo giorno di scuola al ginnasio, il pantalone più elegante con i quadretti verde scuro e le scarpe di cuoio che usava solo per i giorni di festa. Mentre si pettinava ripassava a memoria tutte le raccomandazioni della madre: era la prima volta che andava in città da solo. Sarebbe stata anche la prima volta che avrebbe percorso la statale senza stare sul sedile posteriore della macchina del padre. Se durante il viaggio capitava che si sentisse male, il papà prima lo rimproverava, poi piano accostava e lo faceva scendere. La mamma lo accompagnava in un prato, finché Alfredo non diceva che stava bene e il viaggio ricominciava.

Suo padre non c’era più, era morto quell’estate. “Ha l’acqua nei polmoni” aveva sentito dire Alfredo, chiuso in camera sua tutte le volte che veniva il medico, perché non volevano che lui sentisse.

Ma Alfredo aveva capito che suo padre non aveva l’acqua nei polmoni, era il fumo della fabbrica che aveva respirato per venticinque anni, che gli era entrato dentro e mischiandosi al suo fiato e chissà a quale altra sostanza si era trasformato in acqua. Per questo Alfredo non amava la città, ma non c’erano altre scuole e neanche altre strade per lui.

Quei primi giorni in autobus furono i viaggi della timidezza e della conoscenza. Tutto gli sembrava nuovo, persino la strada, che dal sedile così alto di una corriera gli sembrava diversa, minuscola e deserta.

Lungo la strada, circa a metà, c’era il paese di Carcàra. Dopo il lungo curvone a destra, il bus rallentava per fermarsi sotto un piccolo cartello metallico per far salire un gruppo di studenti. Prima compariva la vecchia torre circolare di avvistamento, poi un pugno di case bianche e basse costruite proprio sulla spiaggia. Alfredo tutte le volte si chiedeva come sarebbe vivere con una finestra davanti al mare, svegliarsi con il rumore delle onde, avere paura quando d’inverno il maestrale le ingrossava e si alzavano minacciose. Trascorsero così i primi mesi di scuola, finché un mattino di Novembre, Alfredo, per la prima volta, si innamorò. Fu lungo la strada, precisamente subito dopo la fermata di Carcàra. Era di Martedi, quel giorno una ragazzina dai capelli lisci e lunghi e le lentiggini, salì sul bus stranamente pieno, e si sedette accanto a lui.

E’ libero qui ?” gli chiese.

Libero ? Qui ?” rispose Alfredo che istintivamente si strinse verso la carlinga, liberando molto più dello spazio del quale aveva bisogno la ragazzina. Che infatti sorrise. E si sedette.

Tra loro cominciò così, con una domanda che risponde ad un’altra domanda.

I lunghi capelli neri le terminavano in un posto imprecisato a metà della schiena, una flotta di lentiggini sulle guance e un libro di scienze poggiato sulle gambe. Indossava una gonna lunga fino alle caviglie e scarpe da ginnastica troppo leggere per l’Autunno. Alfredo per tutto il tempo fece finta di guardare verso il finestrino, ma con la coda dell’occhio la spiò.

Quella ragazzina si chiamava Stefania. Da quel giorno la strada si trasformò in incontro, occasione, batticuore.

Tutte le mattine poggiava i libri, o il cappotto, nel posto accanto al suo e aspettava Stefania. Lei quando non era con le amiche, lo raggiungeva. Parlavano del mare, del piccolo paese di lei, della casa di Alfredo nella campagna, della scuola.

Alfredo sognava che un giorno il bus venisse dirottato da un folle che desiderava andare al mare a Carcàra, così lui e Stefania sarebbero andati in spiaggia e lei gli avrebbe mostrato la sua casa bianca. Ma il bus non deviò mai dal suo tracciato, Alfredo non imboccò mai quel bivio, la casa di Stefania restò solo una figurina nel suo personale album della fantasia.

Alfredo quell’anno fu promosso e anche quello dopo, e quello dopo ancora.

D’estate quando non andava avanti ed indietro dal suo paese alla città, Alfredo cambiava aria. La madre lo portava in una piccola casa al mare, giù al sud. E così Alfredo non incontrava più Stefania, non vedeva più il bivio di Carcàra, e quel mare da lontano, abbandonava la scuola e gli amici, gli mancavano i suoi posti e anche la strada.

Finché l’anno successivo, alla fermata di Carcàra, Stefania non c’era più. Gli dissero che i suoi genitori avevano cambiato casa e se l’erano portata via, ma Alfredo non ci credeva, decise che un giorno sarebbe andato giù a Carcàra a chiedere spiegazioni e si sarebbe fatto dire precisamente dove era andata Stefania. Ma passarono i giorni e Alfredo non trovò mai il giorno giusto.

Quella strada da percorrere ogni giorno divenne triste ed interminabile.

I suoi voti peggiorarono e si diplomò con un giudizio modesto. Decise che ne aveva abbastanza di quei posti e anche della strada.

Ma fu in quei giorni che la madre di Alfredo si ammalò. Questa volta non poteva chiudersi nella stanza ed origliare le parole del medico. Prese la patente, recuperò l’auto del padre e continuò ad andare su e giù per la statale, tra la casa e l’ospedale. Non c’erano più sedili davanti e di dietro, c’era solo lui che guidava solo, gli occhi attenti sull’asfalto. La strada diventò disperazione e attesa, pianti e sbadigli. Cambiarono gli orari, Alfredo sintonizzò la sua vita su quelli di visita dell’ospedale. Quell’estate fu una stagione calda e triste, ma fu anche quella durante la quale Alfredo diventò grande.

Sua madre morì la prima settimana di Settembre. Alfredo voleva lasciare il paese, trovarsi un lavoro e avere una finestra davanti al mare; ma lei gli aveva chiesto di continuare gli studi, “mi piacerebbe che tu ti laureassi” e Alfredo non riuscì a dirle di no.

Ad Ottobre cominciò a seguire i corsi in facoltà, in centro città. Per mantenersi lavorava nei fine settimana, comprò un auto usata con i sedili alti, la statale 63 aveva tutto un altro aspetto ora. Era diventata la strada dei sogni e del futuro. Per Alfredo furono questi dell’adolescenza gli anni più leggeri; si innamorò tante volte e altrettante volte smise di amare, a volte, passando rapido guardava ancora alla fermata di Carcàra, cercando di riconoscere Stefania, ma non la vide mai. Quando terminò l’università pensò che, dopo tanti anni, aveva finalmente terminato di percorrere la statale; ora poteva cercarsi un lavoro lontano da lì.

Il famoso bivio lungo la strada della vita, che non era stato Carcàra, sarebbe stato altrove.

Invece Alfredo trovò subito un impiego proprio in città, a due passi dall’università, e ricominciò subito, tutte le mattine, ad andare su e giù per la statale. Non era più la strada che percorreva con i genitori tanti anni prima: grossi autobus collegavano la città con le piccole cittadine, Alfredo era costretto a svegliarsi sempre prima il mattino e tornava a casa tardi la sera. Era diventata la strada del traffico, del rumore, della stanchezza, ma anche delle responsabilità e della consapevolezza. Dopo qualche anno, in una riunione di lavoro, incontrò Laura, che aveva una casa là vicino. Quando si sposarono, Alfredo provò a vivere in città qualche tempo. Per arrivare al lavoro ci impiegava pochi minuti. Non ci era abituato: la mattina continuava a svegliarsi presto e restava immobile a guardare le auto ai semafori dalla finestra del salone. Per ingannare il tempo cominciò a correre, cinque chilometri di statale in avanti e cinque all’indietro, lui che al massimo aveva giocato a pallone da ragazzino nel cortile o per strada. Alfredo partiva all’alba: guardare la statale da quella prospettiva gli sembrava stranissimo, era una strada nuova, gigantesca, lunghissima. Fatta di un sasso dopo l’altro, muretti sbeccati, pietre miliari, buche e particolari mai visti.

Fu così che i chilometri nelle sue gambe diventarono prima dieci e poi quindici. La corsa gli restituiva quel senso di libertà troppo a lungo costretto in un auto. A volte si fermava qualche minuto, subito dopo il curvone a guardare giù verso Carcàra ed il mare. Respirava profondo guardando l’orizzonte, non era raro che gli tornasse alla mente Stefania e le sue lentiggini. Un giorno promise a sé stesso che avrebbe percorso tutta la statale avanti ed indietro, erano più di 40 chilometri. Sembrava impossibile ma lo fece. Durante i lunghi allenamenti quella divenne la strada del sudore e del sacrificio, della fatica e dell’impegno. Ogni anno una maratona partiva dalla città, percorreva un tratto di statale e tornava in città. Alfredo si iscrisse e la terminò. Gli sembrò un percorso leggero e familiare, ne conosceva ogni centimetro quadro, la strada divenne sua complice e alleata.

Quando Laura ed Alfredo ebbero il secondo figlio, lei lasciò il lavoro, e tutti e due lasciarono la città che era troppo caotica ed inquinata, così andarono a vivere nel paese di Alfredo. Nella casa che gli avevano lasciato i suoi genitori. Alfredo in fondo ne fu felice, nonostante tutto amava il suo paese; tornò a percorrere la statale in auto però fu costretto ad abbandonare la corsa, perché non aveva più tempo libero.

Ma il 3 di Luglio, giorno della festa di Carcàra, Alfredo portava sempre Laura ed i bambini a guardare i fuochi artificiali; parcheggiava l’auto nel curvone e poi saliva su una montagnetta di terreno ai bordi della carreggiata, da dove si vedeva bene la spiaggia ed il mare.

Alfredo qualche volta chiedeva se si voleva andare tutti insieme giù a vedere com’era il paese, ma Laura non amava la confusione e quindi si rimandava sempre ad un altro giorno.

I due figli di Alfredo e Laura crebbero in fretta, si iscrissero al liceo, salirono su quello stesso bus, più moderno certo, ma che percorreva la stessa strada. Passarono gli anni, un mattino Alfredo, dopo il grande curvone, rallentò e si sporse a guardare verso Carcàra: le case sembravano aumentate, sulla spiaggia era stato costruito un grande capannone con un tetto in lamiera; dall’alto si vedeva anche che il grande campo di arance era diventato un parcheggio, che già nei primi giorni di Maggio si riempiva di auto. Accanto al cartello del bivio avevano aggiunto altri cartelli. Due alberghi dal nome esotico, un supermercato, un commerciante di liquori.

Le case che non visitò mai, il bivio che non ebbe il coraggio di prendere, il posto che lui non scelse, era andato avanti. Correndo su una strada parallela alla sua, come tutte le storie che non abbiamo il coraggio di incrociare e poi, dopo troppo tempo, ci accorgiamo che si sono troppo allontanate e raggiungerle non ha più senso.

I suoi figli si sposarono ed ebbero a loro volta dei figli, andarono entrambi a vivere in città. Alfredo decise di fare solo il nonno e andò in pensione. La mattina continuò ad andare su e giù per la statale per badare ai piccoli nipoti.

I nipoti non ebbero più bisogno dei nonni, proprio quando Alfredo cominciò ad avere difficoltà a guidare; fece ancora uno sforzo per la più piccola dei tre. Una sera, nel temporale, non riusciva più a riconoscere la statale, la strada era diventata una minaccia, ostile, stretta e pericolosa. Ebbe paura. Il giorno dopo riportò la macchina in concessionaria e non guidò mai più.

Da quando Laura è scomparsa, quasi due anni fa, il figlio nei weekend va a prenderlo per portarlo in città. Alfredo lascia ai nipoti il posto avanti e si siede sempre sul sedile posteriore, si concentra e guarda dritto dinanzi a sé per paura di vomitare.

Ha comprato anche una bici, talvolta pedala su quella strada dei ricordi. Spesso alla fermata di Carcàra vede una donna ferma proprio sotto il vecchio cartello. Ha le lentiggini sul viso e tiene un carrello della spesa con la mano destra. Allora rallenta, per guardarla bene, perchè “per ogni strada c’è una velocità giusta”.

Scusa ti chiami Stefania ?” vorrebbe fermarsi e ripartire da una domanda, ma non ha il coraggio, e poi adesso gli è più utile il dubbio.

La strada, quel pezzo di strada, è diventato di nuovo quello della speranza e dell’amore.

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