L’ORDINE DI TUTTE LE COSE

campo aratoA Marco piaceva mettere in ordine.

Non si sa da dove gli provenisse questo desiderio, questo istinto di sistemare ogni cosa al suo posto, ma ogni volta che poteva, lo faceva con grande impegno e relativa enorme soddisfazione. Quando a casa notava delle cose fuori posto, allora si prendeva un pomeriggio libero dal lavoro. Alla moglie diceva che poteva anche lavorare a casa quel giorno e così aspettava che lei uscisse per restare solo.

Rimasto solitario in casa, Marco non iniziava subito il suo compito, sapeva di avere alcune ore a disposizione e quindi si godeva quella piccola attesa durante la quale passeggiava da una camera all’altra come se niente fosse, ma cercando di registrare quali dovessero essere gli spostamenti da effettuare. In genere si concedeva anche un caffè e qualcosa di dolce subito dopo mentre rifletteva bene sulle varie operazioni in programma.

Quindi iniziava. Di solito sempre dal suo studio: ripuliva per bene la scrivania buttando via i giornali nel cesto della carta, se qualche articolo gli interessava lo ritagliava e poi lo metteva in un cassetto insieme a tutti gli altri articoli ritagliati che, sperava, un giorno gli sarebbe serviti, anche se non riusciva immaginare per cosa.

Quando la sua stanza era completamente in ordine, passava al bagno. In genere non c’erano molte cose fuori posto, bastava sistemare la mensola dello specchio dove qualcuno sempre lascia smarrito un pettine, un dentifricio o una lametta da barba. Se qualcuno aveva lasciato la radio in bagno, Mario la staccava, rivolgeva il cavo con attenzione e la riportava in soggiorno, accanto alla televisione.

Tutte le altre cose le infilava nell’armadietto accanto al lavabo e qui già che c’era (ma proprio perché era stato costretto ad aprirlo altrimenti non sarebbe intervenuto), Marco controllava che non ci fossero medicinali scaduti, quindi raccoglieva tutti le piccole scatole e si sincerava, ad esempio, che nella bottiglietta dell’acqua ossigenata ce ne fosse ancora o che nel contenitore dei cerotti ci fossero ancora cerotti. Erano piccoli interventi di routine questi, quindi richiudeva per bene l’armadietto e cambiava stanza.

In soggiorno c’erano sempre un po’ di cose che erano finite fuori posto: riviste sul tavolino, il telecomando sempre sul divano a rischio di essere schiacciato, penne biro abbandonate in angoli misteriosi, matite finite in strettoie oscure. Al filo di polvere accumulatosi sul bordo del televisore, Marco concedeva tutte le attenuanti del caso, solo in casi gravi, dava una spolverata alla casa. Quando micro batuffoli di polvere galleggiavano sul pavimento o nuvole di briciole di pane si erano radunate in luoghi ben visibili.

In questi casi, Marco imbracciava l’aspirapolvere elettrico e partiva all’attacco. In principio si proponeva di aggredire solo l’evidenza dello sporco, poi il desiderio d’ordine si impossessava di lui e come un contadino alla trebbiatrice, regolarmente Marco, passava su ogni striscia del pavimento.

Partiva da un angolo della stanza e passava l’aspirapolvere in strisce parallele, quando arriva sulla parete opposta girava preciso e tornava indietro. Si immaginava come un agricoltore in sella al suo trattore che arava in maniera scientifica il suo campo, come quelli che vedeva dall’autostrada, riordinati in infiniti nastri paralleli tutti uguali. In quel minuto, i suoi dieci metri quadri di soggiorno diventavano ettari di terreno da preparare per la semina. A lavoro terminato ricontrollava la scomparsa dei micro batuffoli, se era il caso ritornava sulla scena e dava ancora un colpo di aspirapolvere.

Anche in camera da letto Marco era diligente. Cominciava sempre dalla sedia dei panni smessi, li controllava ad uno ad uno, controluce, utilizzando almeno tre dei cinque sensi a sua disposizione. C’erano giorni in cui non era per niente indulgente, ne raggruppava un bel mucchio e li lanciava in lavatrice senza esitare. Per gli altri aveva cura di ripiegarli e rimetterli sulla sedia, in ordine inverso di come sarebbero stati indossati il giorno dopo, o la sera stessa.

Di solito gli davano da fare i comodini. Luoghi di disordine e pessima organizzazione. Centri di accumulo di oggetti inutili o comunque non utili nell’immediato: pomate, batterie semi-scariche, luci da lettura, collane smesse e altro ancora. Mario interveniva come un cinico impiegato della nettezza urbana, portando via tutto e riportandolo al loro posto. A volte si spingeva a dare uno sguardo anche ai cassetti, ma dal punto di vista del suo sistema mentale ciò che era nascosto al suo sguardo era già in ordine a prescindere.

Successivamente passava all’ingresso, piccolo ma bisognoso di attenzione. Chiavi fuori posto, buste lasciate là in attesa di qualcosa che non c’è ancora e forse non ci sarà almeno per oggi, oggetti pronti per andare altrove ma, misteriosamente ancora là da giorni. Marco esaminava ogni caso con precisione, poi decideva cosa farne. Se era il caso di trovargli un nuovo posto in casa o accordargli il beneficio del dubbio e dell’attesa, nel primo caso li costringeva nella console, a costo di chiuderne a forza le ante, sigillandoli.

Ma l’ambiente che dava sempre più lavoro a Marco, era senza dubbio la cucina. Bicchieri dimenticati, plastiche di brioche sul tavolo, briciole e centesimi in rame disseminati sulla tovaglia. Ma non solo: involucri cartacei che affollano lo stipite accanto al frigorifero, la macchinetta del caffè lavata ma non rimessa al suo posto, tovaglioli di carta sparsi ovunque e volantini del centro commerciale con offerte in scadenza sulle sedie, in pila, raccolti. Pane duro da buttare, flaconi di detersivi terminati da riciclare. Marco agiva con determinazione e sveltezza, radunava tutto lo smaltibile e lo eliminava, quindi procedeva ai riposizionamenti e, infine, alla lavatura delle parti.

Ma ciò che impegnava di più Marco era l’abbandono o la distruzione dei piccoli oggetti che rappresentavano dei ricordi. Un biglietto di auguri dello scorso Natale, o quello aereo di un viaggio speciale. Uno scontrino di un giorno indimenticabile, un brutto souvenir di una bellissima gita. Marco rimaneva sempre perplesso a riflettere: “dopo quanto tempo”, si chiedeva, “un ricordo può essere accantonato ?”. Ovvero, se c’è un tempo limite e se c’è, cosa farne degli oggetti lasciati in vista a ricordarci qualcosa. Ma anche, dopo aver deciso l’accantonamento, quale fosse il posto giusto per conservare questo tipo di oggetti ?. Era certamente questo il momento più complesso del riordino di Marco, quello che gli portava via più tempo e fatica.

La sparizione dei ricordi riportava la casa di Mario ad un tempo presente, resettando il cronometro della vita ad un nuovo presente. D’altronde  era forse quello il senso di tutto quell’impegno: riportare il mondo al punto di partenza. Pronto a creare nuovi ricordi, nuovo disordine.

Alla fine, Marco, era sempre molto fiero del suo lavoro, si sentiva un super eroe dell’ordine. Ora ogni cosa era al suo posto.

Se proprio voleva fare le cose in grande Marco effettuava, al termine di tutto, un lavoro di bricolage; non troppo complicato per non fare danni. Spesso si trattava di appendere un quadro lasciato sulla credenza, in attesa. Questo era un intervento non programmato, ma che conferiva a Marco, se concluso con successo, ulteriore, grande, motivo d’orgoglio perché creava un punto di vista nuovo, un innovazione nel panorama, che poi gli sembrava indispensabile.

Quando Marco terminava di mettere tutte le cose al loro posto, di solito, si appoggiava all’angolo del corridoio, tra il calorifero e il pilastro e da là cercava di memorizzare tutti i posti, ogni oggetto spostato e riordinato. Dopodiché, un felice stato di serenità gli prendeva nel cuore: si sentiva stranamente più leggero, a volte anche più giovane. Si sedeva sul divano, concedendosi un breve sorriso. L’ordine che lo circondava ora lo tranquillizzava, si sentiva quasi protetto da ciò che ogni giorno minacciava di inquietarlo.

Quando la moglie, a sera, rientrava, raramente notava grandi differenze. Anzi, a volte subito si accorgeva della mancanza di qualcosa e Marco, quasi giustificandosi gli diceva dove l’aveva sistemata. L’intervento di Marco sembrava quasi generato dalla natura, o dal normale andamento del tempo, che, come è noto, sistema tutto.

Spesso, però, per farsi riconoscere il lavoro, Marco, ad un certo punto diceva che aveva passato l’aspirapolvere in tutte le stanze. Gli sembrava quello il gesto più eroico e meritevole di attenzione, ancora più del quadro finalmente sospeso alla parete.

La moglie mentre tirava fuori di nuovo le cose ordinate da Marco, ma solo perché gli servivano, gli rispondeva sempre: “hai fatto bene”.

Era quello il premio di Marco: aver fatto bene.

La medicina che calmava, almeno per qualche ora, l’incredibile disordine che aveva dentro.

 

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