Invincibili, inevitabili, invedibili. Le città nonostante noi”.

TESTO DELL’INTERVENTO TENUTO AL PREMIO PIDA 2024

Sono qui per fare una cosa che solitamente fanno quasi tutti: parlare male degli architetti.

In particolare sono qui per spezzare una lancia contro quella parte della categoria che non è stata in grado prima di prevedere e quindi ovviamente dopo di prevenire i guai delle nostre città. Meglio di loro, ad esempio, si sono comportati scrittori, registi, artisti in genere. Quindi in questo intervento io parlerò male degli architetti, Anzi, farò di meglio: non ne parlerò affatto.

Viceversa, a quasi sessant’anni di distanza, era il 1966, dall’uscita del suo primo vero, dirompente, manifesto ambientalista, ritengo sia giunto il momento di attribuire il giusto riconoscimento ad uno dei più importanti urbanisti del novecento: Adriano Celentano.  Questo perché le rivoluzioni, i mutamenti della società, quindi anche i disastri ai quali andiamo incontro, vengono avvertiti sempre prima dagli artisti e poi dagli addetti ai lavori.

Al festival di Sanremo del 1966, Celentano si presenta insieme al Trio del Clan con questo brano che poi diventerà famosissimo: “Il ragazzo della via Gluck” e ovviamente viene subito eliminato, perché le avanguardie sono sempre viste con sospetto. Pensate che quel festival fu vinto infatti da Domenico Modugno e Gigliola Cinquetti che cantavano “Dio come ti amo” che come testo è sicuramente molto più rassicurante.

Nel testo de “Il ragazzo della via Gluck” ci sono già in nuce tutti gli argomenti con i quali si sarebbero confrontati gli urbanisti, gli architetti, i sociologi nei successivi sessant’anni e con i quali ci stiamo confrontando ancora adesso.

Innanzitutto dicevamo, nel brano, c’è l’argomento dell’ambientalismo (“Là dove c’era l’erba ora c’è una città”), poi c’è il tema del consumo di suolo (“Perché continuano a costruire, le case e non lasciano l’erba”), c’è il problema dell’inquinamento ambientale (“Mentre là in centro io respiro il cemento”) e c’è il tema delle esigenze degli abitanti (“Là troverai le cose che non hai avuto qui”). E infine c’è anche una sorta di preveggenza, tra l’ammonimento e il disfattismo (“Se andiamo avanti così, chissà. Come si farà. Chissà”). Manca, ma solo in apparenza perché fa parte delle necessità, il secondo tema, decisivo, intorno al quale discutiamo oggi che è quello della tecnologia o, se vogliamo, della modernità in genere.

Teniamo presente che quello del dopoguerra, cioè quando Celentano lascia via Gluck (che tra l’altro è una via centralissima di Milano, accanto alla stazione) ci troviamo in un momento sensibile della nostra storia recente, poiché in quel momento il futuro, a causa del conflitto mondiale, è arrivato più velocemente. La guerra fatalmente, quando finisce, accelera il futuro.

Naturalmente gli architetti avevano già in più occasioni provato ad immaginare il futuro delle nostre città. Facendo in realtà sempre molta confusione, mischiando ideologia con progresso. Pensiamo alle utopie dei futuristi (forse Sant’Elia fu quello che più si avvicinò alla città contemporanea) o di Le Corbusier negli anni ’20: il piano per una città da 3 milioni di abitanti, la villa Radieuse e poi le successive unità di abitazione e naturalmente tornando agli anni del dopoguerra e restringendo il campo all’Italia, le utopie dei “quartieri città”: il Forte Quezzi a Genova, il Corviale a Roma, fino allo Zen di Palermo e alla “Vele” di Scampia. In ogni caso questi degli architetti, che siano solo pensati o anche messi in pratica, si sono rivelati esperimenti falliti drammaticamente. D’altro canto gli architetti devono essere piuttosto ingenui se credono di riuscire davvero a condizionare il futuro delle città, persino arroganti.

In ogni caso i tentativi sono quasi tutti falliti perché, probabilmente, prevedevano futuri troppo prossimi, invece il futuro ha bisogno del suo tempo di maturazione.

Perché, a parte le accelerazioni dovute ad eventi catastrofici o, vedremo dopo, causate da scoperte tecnologiche, il futuro si manifesta sempre con intervalli che hanno bisogno almeno 35/50 anni di decantazione.

Gli scrittori, i registi, alcuni artisti hanno calcolato con maggiore raffinatezza la distanza da attribuire al concetto di “futuro”. Ovviamente non tutti sono stati buoni profeti.

Orwell scrive “1984” nel 1949 quando ha già 46 anni, nel 1984 ne avrebbe avuti 81 però muore l’anno dopo. “2001 odissea nello spazio” è un film del 1968, Kubrick ha 40 anni quando lo realizza, morirà nel 1999 ma comunque nel 2001 eravamo troppo occupati con le cose terrestri per andare alla conquista dello spazio. Parlando di arte, Keith Haring è stato tra i migliori profeti: cominciò ad “imbrattare” i muri di New York alla fine degli anni ’70. Oggi non c’è città che non apprezza la street art e cerca con i murales di rigenerare pezzi di periferia degradati.

Ma, a proposito di città, io vorrei ricordare quel film visionario di Elio Petri che è “La decima vittima”, girato nel 1965 che è considerato il primo film italiano di fantascienza, dove le città sono il teatro di grandi reality show dove è possibile ammazzare per sfogare la violenza repressa. Un film profetico tratto da un racconto di Robert Schekley del 1953 ambientato in un futuro che non può essere più distante di qualche decina di anni.

(Scena tratta da “La decima vittima” di Elio Petri)

Ma torniamo alla letteratura, per mettere insieme l’opposizione dei cittadini e la volontà del governo di controllarla, c’è uno scrittore che, forse per prudenza, proprio per non assistere al futuro che aveva previsto, aggiunge qualche anno alle sue visioni. Ed è Ray Bradbury. Americano, nato nel 1920. Naturalmente la maggior parte di voi conosce il suo libro più noto, “Fahrenheit 451” che è stato scritto nel 1953 ma non è ambientato in una datazione precisa. Il libro lo abbiamo letto, ci ricordiamo tutti la faccenda dei pompieri che bruciano i libri, ma chi si ricorda della città di Fahrenheit 451? Con le sirene che segnalavano i comportamenti sbagliati, bombardata di messaggi pubblicitari e le case dove la televisione interrogava i telespettatori. La tv interattiva di “Fahrenheit 451” non è altro che l’antesignana di questo bombardamento di informazioni che oggi riceviamo via cellulare. Di tutti coloro che ci chiedono il nostro parere, mentre i “like” che mettiamo sono le risposte a domande che nessuno ci avrebbe mai fatto.

Truffaul girò un film tratto dal romanzo, nel 1966.  Vediamo una piccolissima scena perché le immagini sono sempre più efficaci delle parole.

(Scena tratta da “Fahrenheit 451” di F. Truffaul – visibile QUI)

Ma sull’invadenza della tecnologia torneremo dopo, io voglio parlare di un altro libro di Bradbury che è “Cronache marziane”, del 1950 (in Italia nel 1954) dove il tema dell’ambientalismo ritorna sempre a causa di un conflitto, che l’autore prevede disastroso, tanto che gli abitanti della terra sono costretti ad andare a costruire le loro città su Marte. Ma in realtà su Marte i terresti trovano già occupato, perché i marziani sono molto più avanti di noi e hanno valutato in maniera differente come bisogna organizzare la vita. Ovvero, hanno trovato il segreto per conservare la loro civiltà. Questa previsione pseudo-urbanistica è ovviamente spiazzante dal punto di vista tecnico ma è così romantica. Ve lo faccio raccontare dal marziano del pianeta di Tir nella serie televisiva diretta da Michael Anderson tratta dal romanzo di Bradbury che andò in onda in Italia nel 1980.

(Frammento tratto dalla serie TV “Cronache marziane” di M. Anderson – visibile QUI)

Ma c’è uno scrittore che, a mio avviso, è riuscito a prevedere, in due fasi diverse della sua vita, cioè giovinezza e maturità, le derive delle quali è vittima la città contemporanea e futura e cioè: il cambiamento climatico e la tecnologia (o se volete, la modernità).

Allora per chi non lo conosce, solo lieto di presentarvi James Graham Ballard uno scrittore inglese nato nel 1930 e scomparso di recente, nel 2009. Dal 1961 al 1966 Ballard scrisse quattro romanzi detti de “La tetralogia degli elementi” nei quali prevedeva una serie di catastrofi causate dai mutamenti climatici. In particolare Ballard è particolarmente intenso in un romanzo del 1962 che si chiama “Il mondo sommerso” dove le radiazioni solari hanno portato allo scioglimento delle calotte polari sommergendo le città dell’Europa e dell’America settentrionale creando splendide e ossessionanti lagune tropicali. E il paesaggio diviene lo specchio degli istinti degli esseri umani, quasi una conseguenza dei loro desideri.

Dodici anni dopo tra il 1973 e il 1974, Ballard abbandonati i temi della distopia legata alla fantascienza vira verso il postmoderno e scrive due romanzi. Il primo si chiama “Il condominio” ed ci riporta alla memoria le realtà di “quartieri-città” delle quali abbiamo parlato poc’anzi, ma io voglio parlarvi di un altro romanzo, dal titolo “L’isola di cemento”, dove un architetto (e secondo me non è un caso che scelta un architetto come protagonista. Anche ne “Il condominio” uno dei protagonisti è un architetto) a seguito di un incidente stradale sull’autostrada viene sbalzato al centro di una sorta di isola spartitraffico dalla quale, poiché ferito, non riesce più ad uscire. La vita che scorre all’interno dell'”isola di cemento” è sostanzialmente quella che si svolge in un “non-luogo”, creatosi solo come interstizio dei luoghi della modernità, dove coloro che riescono a sopravvivere ne rimangono schiacciati e si emarginano. In sostanza è la storia di un uomo che si credeva perfettamente inserito nel meccanismo della società e che invece, in un secondo, si trova catapultato nell’inferno dell’indifferenza e degli stenti vittima dell’estremizzazione della modernità.

Per chi ha letto “The Game” di Baricco questo è ciò che attende coloro che non sono in grado di entrare nel game e si sono trovati improvvisamente e sorprendentemente espulsi da settori magari lavorativi che prima dell’esplosione del digitale, maneggiavano con sicurezza. Perché la tecnologia ha avuto su di noi, sulla società, sulle città che viviamo, lo stesso catastrofico impatto che ha avuto la guerra. Ha accelerato il futuro, ce lo ha fatto piombare addosso tutto di un colpo. Ha sovvertito la legge dei 35/50 anni e ha confinato in un angolo tutti coloro non sono abbastanza agili da adeguarsi.

Naturalmente la storia dell’isola di cemento è un paradosso ma che la modernità sia un elemento respingente per una grande fetta della popolazione, specie gli anziani oltre che i poveri, è una realtà.

A tal proposito voglio farvi ascoltare cosa disse Ballard in un’intervista del 1985, quando eravamo ancora fuori dal game, a proposito del futuro.


(Frammento tratto dall’intervista a J. G. Ballard del 1986 – visibile QUI)

Ballard è in sostanza terrorizzato dagli effetti di quella che lui chiama modernità e che oggi è andata esattamente nella direzione che prevedeva, ovvero, tra le altre cose, con la possibilità di sostituirsi alle persone, con l’intelligenza artificiale.

E qui, perdonatemi, se devo citare un altro scrittore, perché gli scrittori ci arrivano sempre prima e meglio. Ed è Stefano Benni, che tra i tanti mondi che ha raccontato ha anche evocato, più volte in realtà, lo spettro della città tecnologica. In particolare c’è un bel racconto contenuto in “Cari mostri” che è un libro del 2015.

Il racconto si chiama “Numeri” e narra di un certo signor Zefiro che si sveglia una mattina e scopre che tutti i suoi dispositivi elettronici, magnetici, digitali, non funzionano più. E a causa di questo non può più fare nulla.

Ritornando a Ballard, mi piace moltissimo questa scoperta, da lui più volte paventata, del futuro dei prossimi 5 minuti, perché è esattamente quello che ho provato a raccontare nel mio libro. Mentre siamo preoccupati di prevedere cosa ci sarà nella città tra 30 anni, sempre che non accada qualche altra catastrofe acceleratrice, ci sfugge cosa ci potrebbe accadere tra 5 minuti, che in sostanza è la conseguenza di quello che è già accaduto. Per questo il mondo raccontato dal protagonista del mio libro, l’ipotetico viaggiatore, è il mondo che è già intorno a noi, il NOSTROMONDO, semplicemente messo a fuoco con l’obiettivo del paradosso, come nel caso dello spartitraffico di J. G. Ballard, perché le nostre città sono già cambiate a causa di fenomeni che non siamo riusciti a controllare o che ritenevamo marginali, magari rispetto a ben altre battaglie che nel frattempo conducevamo.

Ecco così che sono davanti a noi le città delle vacanze dove sono sparite lo spazio e le spiagge pubbliche e quelle dove in difesa di quello privato fioriscono mura divisorie come fossero siepi, le città dell’overtourism assediate dai tavolini, le città foderate di asfalto e, viceversa, quelle ossessionate dal verde, le città in eterna attesa di fondamentali opere pubbliche e quelle rumorosissime ben oltre la soglia di sopportazione.

Ma anche le città “non luogo”, che noi frequentiamo abitualmente, certamente più affollate dello spartitraffico di Ballard; quelle per eccellenza sono le stazioni ferroviarie, gli aeroporti ma anche i centri commerciali. O le città di semplice passaggio fatte solo di persone, gli accampamenti degli sfollati, i centri di raccolta degli immigrati, i tunnel, cioè le città sotterranee o degli invisibili (chi ha visto quella meravigliosa serie Tv con Antonio Albanese dal titolo “I topi”?).  

Di contro ci sono le città immaginate, quelle che ognuno di noi vorrebbe ma solo per sé, un po’ da egoisti e un po’ da sognatori. Che però sono migliaia e tutte diverse e quindi non possono coincidere con quella che ha in mente l’architetto di turno (che, dunque, alla fine della fiera, assolviamo convintamente).

Ma soprattutto, quelle più pericolose: le città ipertecnologiche, quelle che possono abitare solo coloro che sono dotati di identità elettronica, carta prepagata, posta elettronica certificata. Che sono città asociali per definizione. E siccome il futuro è tra 5 minuti, cioè è adesso, io vi invito a non perdere l’occasione di spedire una cartolina a chi volete più bene del e dal NOSTROMONDO. Indicando la città dove siete e quella, immaginaria, dove vorreste essere.

Per chiudere io penso che le città siano invincibili: non si fanno comandare, inevitabili cioè accadono nonostante noi. E spesso sono invedibili, cioè alla lettera: non si possono proprio guardare perché da ingovernabili diventano quello che vogliono loro, spesso purtroppo con risultati pessimi dal punto di vista estetico. All’architetto il compito non tanto di inventarsi la soluzione ideale ma di contenere, mi verrebbe da dire i danni, ma dico i mutamenti deleteri e facilitare quelli virtuosi.

In ogni caso, ritornando al principio di questa piccola digressione, la morale è che se vogliamo sapere in quale direzione stiamo procedendo e di quali problemi dovremo e dovranno, i nostri figli e nipoti, occuparsi nei prossimi sessant’anni, dovremmo trovare un cantante, probabilmente un rapper a questo punto, che ha più o meno 25 anni che arriva ultimo al festival di Sanremo.

Mentre lo cerchiamo riascoltiamoci Celentano.

(Video musicale “Il ragazzo della via Gluck” di A. Celentano – visibile QUI)

Il libro “IL NOSTROMONDO – Le città invedibili” è in vendita QUI

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