CARI MILLENIALS VI SPIEGO MARCO PANTANI

Il 14 febbraio del 2004, in un anonimo albergo dinanzi al mare di Rimini, moriva Marco Pantani, l’ultimo eroe sportivo del novecento.

Nessun altro ciclista, ma sarebbe meglio dire atleta, da quel giorno è riuscito ad entrare nel cuore degli italiani come Pantani, e forse neppure prima. Comprendere Pantani per i Millenials è un’impresa impossibile. Anche per me, che ho vissuto gli anni delle sue imprese sportive, provare a spiegarlo non è semplice.

Pantani era un eroe dagli occhi tristi. Perseguitato dalla sfortuna, vittima di incidenti, malinconico, avaro di sorrisi, non una star ma un uomo solo alla riscossa.

Capace di andare più veloce degli altri dove si fa più fatica: in salita.

Laddove la sensazione di solitudine e debolezza del ciclista diventa più evidente, là, sui tornanti delle montagne più dure, Pantani mostrava la sua forza.

E agli italiani l’idea dell’eroe romantico che sconfigge gli atleti muscolari da laboratorio, ha sempre fatto sognare.

Amava dire che andava veloce in salita per abbreviarne le sofferenze.

Mentre Pantani andava l’Italia si fermava. Per le tappe di montagna del giro d’Italia e del tour de France, la Rai modificava i palinsesti televisivi e iniziava la diretta a 200 km dal traguardo. Ci incollavamo al televisore in attesa del segnale decisivo: Pantani che getta via la bandana, scarta di lato e saluta il gruppo. Quel momento di estasi ripagava milioni di appassionati da ore di noiosa attesa. Eccola la rivincita, in quella leggerezza, nel mulinare delle sue gambe sottili, la sagoma stretta rialzata sulla bici, quel volteggio tra i tornanti mentre gli altri arrancano.

Pantani è indecifrabile per i Millenials perché è stato un campione di un’altra era. L’ultimo eroe analogico, oserei dire binario, acceso o spento, speciale nel talento, banale nella fragilità.

Senza toni sfumati, o nero o bianco, disgrazia o trionfo. Glorificato dai media e poi disconosciuto. Prima tanti amici poi il silenzio.

Un eroe pubblico eppure dignitosamente privato. In un mondo senza social, Pantani era Pantani solo in sella ad una bicicletta. Tanto ci bastava.

Così io ho visto Pantani. L’ho visto davvero. Di persona, in una tappa del giro d’Italia, la Mondragone-Cava dei Tirreni: era il 24 maggio del 1997.

L’ho visto passare due volte: nella prima arrampicarsi sulla strada che da castiglione sale a Ravello e poi a Maiori, dopo la caduta nella discesa del Chiunzi, spinto da un compagno di squadra, sanguinante avviarsi mesto al traguardo.

Anche quel giorno, prima vivace poi esausto. Vincitore, vinto. La luce, il buio.

Quello di Pantani è un mistero. Lieto e tragico. Naturalmente.

Pantani aveva dentro qualcosa di poetico, non spiegabile, incarnava la rivincita di una generazione, il Davide che sconfigge Golia, il debole migliore del potente; nelle sue gambe, nel suo spirito eravamo tutti in grado di salire sulla cima più alta.

Una lezione di sacrificio opposto alla debolezza, di pazienza contro la sventura, di fiducia nella tenacia che il tempo febbrile contemporaneo ha reso desueta.

L’eroe perfetto per un popolo in cerca di eroi. Ma che non impara mai dai propri errori.

Se un campione si misurasse sui numeri, Marco Pantani non sarebbe nemmeno nell’olimpo dei ciclisti.

Ha vinto un solo giro d’Italia e una volta si è piazzato secondo. Nello stesso anno, il 1998, vinse al tour de France, dove precedentemente era giunto due volte terzo. Non ha mai vinto un mondiale (fu 3° nel 1995). Non ha mai vinto la Vuelta di Spagna né una grande classica (mai sul podio) o un Olimpiade.  

A solo titolo di esempio, dopo di lui, Vincenzo Nibali ha vinto di più: due giri, un tour, una Vuelta, una Milano-Sanremo e due giri di Lombardia. Eppure la popolarità di Nibali non è nemmeno paragonabile a quella di Pantani.

Un altro enigma, che la matematica non è in grado di risolvere.

Pantani avrebbe potuto vincere di più se non fosse stato vittima di quel tipo di magistratura che desidera il palcoscenico prima della giustizia. Forse il “Pirata” non fu un Santo, ma negli anni del ciclismo schiavo del doping, non fu mai trovato positivo. I suoi valori di ematocrito, troppo alti, rilevati a Madonna di Campiglio nel 1999, il giorno che iniziò a morire, prevedevano solo una sospensione cautelativa.

Tuttavia quello fu il pretesto per trascinarlo, incredulo, in giro per tribunali. Fu quel demone, l’accusa infamante che lo perseguitò fino a spingerlo nel vortice della depressione e della cocaina. Perché per l’innocente, il sospetto è già una condanna.

Ma per noi che l’avevamo visto domare Alpi e Pirenei, cadere e rialzarsi mille volte, piegare la resistenza del più contraffatto degli avversari, l’immagine del campione ineguagliabile e frangibile è ancora ferma nella memoria.

Dopo la sua morte gli sono state dedicate canzoni, film, documentari, libri. Strade, monumenti, targhe. Sulla sua scomparsa è cercata la verità ovunque fosse. Il tempo passa in fretta, ma noi che vivemmo la fine del novecento vogliamo rallentare per non dimenticare, per non perderne la scia.

Pantani rimane il nostro Napoleone, che passò dagli altari alla polvere ma che ancora oggi, vent’anni dopo quel giorno, ha ancora il suo esercito di tifosi.

Non è facile spiegarlo ai Millenials.

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