Càpita che mi ricordi di quando provavi ad insegnarmi a respirare.
Con pazienza, in risposta ai miei continui mal di stomaco, rubavi il silenzio a quelle sere umide d’estate e scandivi il ritmo dei nostri polmoni, sincronizzandoli. Il cuore e il respiro scandivano il tempo di quei momenti. Il mio cuore, sempre troppo lento, quasi fermo; il tuo così terribilmente accellerato. Poi il tuo respiro, profondo e chiaro, raccoglieva tutta l’aria intorno e la spingeva dentro di te, tu la sospendevi nelle viscere, la tenevi là a galleggiare nei polmoni in una sorprendente apnea, quindi la soffiavi via; tutta.
Io respiravo male, il mio stomaco schiacciava il diaframma e la mia aria percorreva un tragitto ad ostacoli, non erano respiri uniformi i miei; strozzati, uno lento, un altro veloce. La mia aria giungeva nervosa a destinazione e ansiosa cercava una via di fuga.
“Rilassati” mi dicevi, “cerca di sentire il respiro”, io cercavo di capire il segreto o la tecnica o entrambe le cose. Se mi toccavi il ventre per sentire il mio ritmo io ridevo, “non ridere” mi ammonivi, io ridevo. “Devi stare tranquillo”, avevi ragione, non ci dovevo pensare troppo, non si organizza il respiro.
Perchè io, con la mia lucida follia razionale, avrei voluto controllare anche il fiato, oppure decidere da un momento all’altro di cominciare a respirare bene, come, spingendo un interruttore, si accende o si spegne una lampadina.
Volevi insegnarmi a sentire il mio respiro affinchè imparassi a sentire quello che avviene dentro di me. Cominciando dal soffio che ci da la vita. L’ho capito, sai.
E tu che eri come me una razionale, abituata a deglutire le emozioni e a soffocare le parole, avevi imparato a leggerti dentro. E a leggermi dentro. Oggi ti chiederei come avevi fatto, da quale parte di te avevi cominciato questa ricerca. E dove sei riuscita ad arrivare in compagnia del tuo respiro così ampio e sereno.
Mi accorgevo che, poco per volta, avevi imparato a distinguere il rumore dal silenzio, le cose utili da quelle frivole, gli obiettivi dai sogni. Tra il periodo della riflessione e quello delle scelte.
Il ritmo del tuo respiro ti spiegava lo spessore del tempo, il giusto distacco dai ricordi, la differenza tra parola scritta e pronunciata. La distanza tra il voler fare e il fare.
Mentre mi impegnavo per imparare avevo la sensazione che tu respirassi anche un pò della mia aria, che il nostro spazio accortosi di somigliarsi, cominciasse anche a fondersi. “Mi respiravi” per aiutarmi, ma io non imparai.
Mi càpita ancora di pensarci. In ritardo su tutti gli appuntamenti, io penso al mio respiro affannato e medito che avrei dovuto imparare, e che anche se nella vita si è sempre in tempo, sarà complicato imparare bene adesso.
Con questa singolare forma d’asma io convivo, con lei si confrontano le mie decisioni, i pensieri pellegrini su sentieri impervi, il disordine che ho dentro che ogni volta tento di decifrare senza successo.
Qualcuno ha detto che solo chi custodisce dentro un grande caos è capace di generare vera pace; incapace di governare il mio respiro mi concentro su quello degli oggetti, rincorro quell’ordine che non posseggo, costruendolo intorno a me attraverso la materialità delle cose.
Arrèso ai respiri affannati, mi impongo un linguaggio minimale, un rigore geometrico impaziente di essere violato, la sicurezza delle forme conosciute. Il mio mondo di abitudini e pigrizia, mal di stomaco notturni, ansie, paura degli addii, è solo una conseguenza di questo respiro disarmonico. E’ così, vero ?.
Queste piccole architetture della vita sono il risultato di questo ossigeno insufficiente, domande non fatte, stati d’animo alterni, scelte rimandate.
E’ il respiro che guida i pensieri e la mano degli uomini, il ritmo e l’incedere della vita.
Càpita che qualche ricordo, di tanto in tanto, torni.
A togliermi il respiro.
(Visited 138 times, 1 visits today)