MALEDETTA SICCITA’

Visto che dobbiamo morire, preferirei morire sbronza”.

Confessa l’affascinante Monica Bellucci allo scienziato, ben pettinato, che si presenta nel suo attico per parlare di cambiamenti climatici, ma finisce per aggiustarle la Jacuzzi.

Sotto di loro una Roma giallo sabbia, dove non piove da tre anni e le blatte, redivive dalle fogne, stanno diffondendo un virus che spegne gli uomini come candele.

Dopo lo sbagliato “Notti magiche”, Virzì con “Siccità” torna alla commedia, corale e amara, mescolando il suo cinema con quello di Sorrentino, Lynch, persino Scola.

C’è del surreale infatti, ma anche la nuova bruttezza di una Roma piegata ma non vinta, che si fa sporca e cattiva nei volti degli emarginati, dei truffati, dei depressi. Più volgare che cinica nelle storie instagram degli attori frustrati. Mistica, inevitabilmente.

Così i personaggi non hanno solo bisogno d’acqua ma di affetto, ognuno impegnato a vivere una vita parallela, nascosta o passata, pur di non vivere quella del presente. E la siccità è solo una metafora, così come lo è il sonno, la polvere, la sete e l’orchestra che, nonostante tutto, suona.

Ma siccome la tragedia contiene sempre un po’ di farsa, c’è qualcuno che va incontro alla fine con il sorriso. I ricchi con la piscina dove anche il nuoto è controcorrente e gli scienziati che, grazie ai media, scansano la polvere per gli altari. D’altro canto, la pandemia ce lo ha insegnato: negli salotti televisivi tutto appare meno crudele di com’è. Basta non concentrarsi troppo.

“Don’t look up” disse Leo Di Caprio.

Ma prima di farli col cambiamento climatico, Virzì ci chiede di fare i conti con noi stessi. Di fare la somma di tutti gli errori della sua generazione, quella di mezzo, di Loris-Mastrandrea, cocainomane separato, autista dell’app “You ride” che vede i morti, o forse i mostri, del passato seduti sul sedile posteriore della sua vettura. Consapevole ma non vittima, del fallimento personale.

 “Siccità” è un film girato dopo le prime due ondate di Covid e si vede. L’eredità delle mascherine e delle terapie intensive sature, riecheggia come un incubo. Come la solitudine, mai tanto violenta: nessuno affetto è oramai stabile e la frattura giovani/vecchi è un cratere più profondo del Tevere in secca.

Virzì ripropone la sua migliore coppia, Mastandrea-Pandolfi indimenticabili in “La prima cosa bella”, teneri e efficaci pure al centro di molti personaggi, forse troppi, che provano tenacemente ad incrociarsi senza riuscirci completamente; a volte restando isolati come Silvio Orlando, l’alieno detenuto caracollante, o irrisolti come Elena Lietti l’ossuta sognatrice che annaffia tenacemente la sua rosa.

Virzì non poteva sbagliare due volte di seguito e infatti non sbaglia, “Siccità” è un film con velleità superiori alla media, poco didascalico ma forte di un lessico raffinato (c’è la mano di Paolo Giordano alla sceneggiatura) e della fotografia del maestro Luca Bigazzi che già illuminò la Roma de “La Grande Bellezza”, mani, anzi occhi educatissimi e si vede.

La sete di cinema c’è, pazienza se il finale è quello previsto (o quasi).

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