L’ARCHITETTURA FRITTA

Se si nutrono dubbi sul gusto c’è solo un metodo per ritrovar certezze: friggere.

E’ vero, forse il fritto non gode di fama specchiata, non è chic, ma intanto lo stile è diventato una roba per snob, un lusso inutile e costoso. Non sono più tempi per raffinati integralismi questi.

Sfiorita l’epoca dei “compro oro” e delle sigarette elettroniche, adesso le nostre città si sono riempite di friggitorie. Non solo agli angoli dei condomini di periferia, ma in ogni via che sia di nobile lignaggio o di indigente fattura. Maghi del fritto, strapagati come divi dei reality, producono infarinature fantasiose e tempura esotiche, elevandosi al rango di artisti o di star invidiate e influenti come intellettuali del New York Times. O, meglio ancora, influencer di youtube.

Il fritto è economico e produce tornaconto. Inoltre non è mai uguale: si può presentare caldo nel cuoppo, salato quanto basta in superficie o nell’impasto, talvolta in carta oleata, avvolto in “full slim” come un modello di Armani.

Fritture da passeggio, prèt a porter, buone per ogni stagione, cartocci da consumare con calma, croccanti o molli.

Oggi appetitose e gradevoli d’aspetto ma domani portatrici di trigliceridi e colesterolo cattivo (solo il tempo ed analisi accurate lo sveleranno).

Ecco, il difetto della maggior parte degli architetti è proprio questo: non saper friggere. D’altronde, nessuna facoltà ha ancora messo in calendario il corso di “Frittura dell’architettura”. Flotte di architetti impreparati dovrebbero dunque imparare a friggere sul campo; spinti dall’esperienza: come chef di locali in difficoltà economiche, che ad un certo punto cambiano il menù.

Altri architetti, specialmente stranieri, anche molto famosi, hanno invece imparato molto bene a friggere. Alcuni, magari, tenderebbero a proporre pure ricette ricercate. Frutto di lavoro d’avanguardia e ricerca, ma troppo complesse. Sarebbero soluzioni incomprensibili per l’essenziale mondo dell’architettura e della politica tricolore.

Di conseguenza friggono: riempiono di banale olio bollente una grande padella di conformismo e ci immergono dentro queste architetture. Se serve infarinano bene prima con una doppia passata di ideologia in saldo, se la sostanza manca, pastellano con abbondante servilismo, tanto che al gusto si avverte molto di più il sapore dell’apparenza che del contenuto. Avete mai assaggiato un render fritto bene? Ha tutto un altro carattere!. Inoltre il grasso unge a dovere le ruote del consenso popolare e tutto diventa ben dorato. 

E’ così che nelle nostre città si diffonde quell’odore di fritto, l’aroma tramortizza le coscienze e il fumo annebbia gli occhi; insieme, lentamente, narcotizzano. Dicono che all’estero vadano bene anche altri tipi di cottura, ma qui no. Passeggiamo ogni giorno tra architettura fritta e neanche ce ne accorgiamo: l’architettura fritta è il futuro.

Oggi un architetto che non sa friggere fa molta fatica. Architetti che si ostinano a calare la pasta o a cuocere al vapore, a infornare teglie imbottite o grigliare costatelle di maiale, impiattando citazioni di Mies e Wright, risultano incompresi. Anche se la pasta e la carne sono cotte bene e le lasagne al forno meravigliose, da loro non c’è mai la fila. Solo sporadici consumatori, con idee troppo chiare e quindi inutili.

La maggior parte dei clienti che si siedono al tavolo dell’architettura vogliono altro. Desiderano qualcosa che abbia un sapore familiare e comprensibile, rassicurante e omologato, come i piatti della mamma o di quel parente, mezzo geometra, che diceva di “saper fare tutto”, ma chissà se era vero. Vogliono il fritto.

Arriva per tutti quel momento che, se si vuol resistere, bisogna imparare a friggere. Impanare, impastellare e friggere. Fa un pò di puzza, ma poi ci si abitua.

Solo gli architetti che friggono fanno strada.

(P.S.: E’ evidente: l’architettura ce la faremo fritta).  

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