La rimozione

ombrello2-642x336Carlo si era accorto di quell’avviso casualmente, passando di là, ma solo perché quel giorno era stato costretto a fare una strada differente.

Era a pochi isolati di distanza dalla casa dei suoi genitori, dove lui almeno una volta a settimana tornava. Era un pomeriggio di Luglio, il piccolo parcheggio a pettine accanto alla statale era pieno di auto, una donna aveva appena pagato il parchimetro e si era allontanata a passo svelto.

Carlo, d’istinto si voltò vero l’angolo dello spiazzo, dove la ringhiera ed il muretto piegavano verso l’interno e si creava quel metro quadro di spazio dove lui a lungo aveva posato i piedi, appoggiandosi, in genere guardando verso la strada, per trovare una posizione comoda.

Un adesivo bianco e rosso appiccicato alla parete di plexyglass, annunciava che il giorno 4 del mese di Ottobre sarebbe avvenuta la rimozione; c’era scritto proprio così: “sarà rimossa il giorno 4 Ottobre”, l’adesivo era in parte strappato e non si leggeva la prima parte ma il pezzo rimasto era ben leggibile e aveva tutta l’aria di non definire una scadenza trattabile, ma un ordine chiaro e perentorio; sembrava inoltre che l’adesivo fosse stato appiccicato già da tempo, nonostante mancassero tre mesi al quattro di Ottobre. Carlo si fermò a guardare per un attimo, diede anche uno sguardo intorno sperando ci fosse qualcuno che potesse condividere con lui quella notizia, ma non vide nessuno.

Sono già passati quindici anni da quando, in quel preciso posto, Carlo trascorreva circa venti minuti ogni sera. A quel tempo viveva ancora con i suoi genitori, e allora, sempre intorno alle 23, nel silenzio della sera, usciva di casa e percorreva quelle due piccole stradine deserte, fino a raggiungere  quel metro quadrato ai bordi della statale. Era quello, sempre quello, il posto dell’”appuntamento”, così lo chiamava Carlo.

Trascorse così un intero inverno: se pioveva, Carlo usciva armato di ombrello, senza farsi spaventare, a volte la pioggia, se forte, disturbava la conversazione, ma Carlo non si scoraggiava e parlava più forte. Considerava, semplicemente, la pioggia un ospite dell’appuntamento. In primavera Carlo usciva molto prima, faceva prima una lunga passeggiata, dove si impegnava ad ascoltare il rumore del mare o il profumo dei fiori di pesco, poi ritornando verso casa, si fermava in quel posto.

Quando arrivò l’estate, Carlo, spesso, prima di recarsi all’appuntamento girava per la strada lunga, passando per una pizzeria poco distante. Il proprietario lo accoglieva sulla porta come un cliente abituale, lui entrava, si appoggiava pensoso al banco ed ordinava una pizza, sempre la stessa: pomodoro e prosciutto, poi anche se non c’era nessuno in attesa, aggiungeva: “vengo a prenderla tra 20 minuti”. Quindi riprendeva la strada abituale per andare all’appuntamento.

Terminato, dopo venti minuti precisi, tornava. A casa cenava sempre da solo, sul tavolo della cucina, fissando la parete bianca e ripensando alle parole appena dette.

Dopo quell’incontro quotidiano, Carlo si sentiva sereno, come un pasticciere che sfornava una torta o un pittore che terminava un quadro. Eppure non erano sempre incontri felici, a volte Carlo piangeva, o si tratteneva a stento mentre sentiva gli occhi farsi umidi e il vuoto salirgli su per lo stomaco. Formulava programmi, promesse, si sforzava di essere divertente, di ridere anche di cose tristi.

Erano quei venti minuti a dare senso all’intero giorno di Carlo. Tanto che rifiutava inviti che coincidessero con quel momento o faceva in modo di anticiparli o rinviarli, per quanto strano possa sembrare quell’intervallo della sera era l’unica frazione del tempo che Carlo considerasse indispensabile per il suo presente. Così sparivano gli altri 1420 minuti di ogni giorno, se ora Carlo provava a ricordarsi altri momenti di quelle stagioni, gli comparivano solo immagini sfuocate, una grande nuvola di fumo grigio che, su un’ipotetica bilancia, pesavano come aria.

Al termine dell’estate, l’appuntamento cominciò a diventare meno rigido, all’idea pressante di presente s’era sostituita quella meno urgente ma più reale del futuro. Da là seguirono altri modi per celebrare quel rito. Altrove. Per questo Carlo da un certo giorno in poi non era più stato là. Ogni tanto ci passava davanti distratto, senza badarci, come si rivede la vecchia scuola o un panorama dalla cima di un monte.

Solo che nessuno può rimuovere un panorama, e forse neanche una scuola. Non in questo modo perlomeno.

Carlo fece due passi in avanti e ne sfiorò la superficie bollente, come ad accertarsi che tutto fosse ancora là e che il 4 Ottobre non fosse ancora arrivato. Il sole rifletteva sulle pareti opache, tutto era invecchiato ma era fermo lì e là avrebbe desiderato restasse.

Eppure pensò che a volte alcune cose vanno proprio rimosse fisicamente per non essere costretti ad inciamparci con lo sguardo, devono semplicemente sparire, per non essere vittima di ricordi senza futuro. O solamente per non appassire.

Era il tempo, quindici anni fa, delle schede telefoniche. Con quella da cinquemila lire Carlo parlava venti minuti esatti. La chiamava quasi sempre lui, Carlo, innamorato di una ragazza distante 1000 chilometri, che non poteva raggiungere.

E lo faceva sempre dalla stessa cabina telefonica. Alle 23, l’ora in cui lei finiva di lavorare. Per il loro appuntamento, in quella piccola stanza di un metro quadrato, accanto alla statale.

Che “verrà rimossa il prossimo 4 Ottobre”.

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