La classifica delle 12 peggiori paure dell’architetto (seconda parte)

pauraIn un precedente brano avevamo dato uno sguardo alle paure dell’architetto che occupano dalla 12° alla 7° posizione (clicca qui per leggerle)

Ecco, a grande richiesta, il vertice della classifica:

Al 6° posto – La colpa: Architetti particolarmente sensibili possono passare varie notti insonni per il terrore che, gira che ti rigira, la colpa, di qualsiasi cosa, ricada su di lui. Questo nel rispetto del noto “Teorema della colpa” che recita così: “in un cantiere edile di qualsiasi importo e dimensione, indipendentemente dalle capacità e dalla chiarezza di qualsiasi essere umano presente nel raggio di 100 metri, se ci sarà da attribuire una o più responsabilità per qualsiasi errore o inconveniente, la colpa ricadrà sempre ed unicamente sull’architetto”.

Al 5° posto – Che venga una schifezza: Una delle più grandi paure dell’architetto è rappresentata dall’inevitabile distanza che intercorre tra le straordinarie intenzioni di ogni progetto e la miseria di ciò che effettivamente viene fuori al termine di un estenuante processo fatto di mediazioni, imprevisti, rinunce, variazioni ecc.. Questa paura è classica degli architetti agli esordi, ma, in genere, non passa mai e guai se scomparisse, svanirebbe quasi tutto il bello di essere architetti. Anche perché, gli architetti lo sanno, nella metà dei casi, causa gli inciampi di cui sopra, veramente viene fuori una schifezza.

Al 4° posto – I vicini di casa del committente: Una delle variabili più importanti per una corretta e serena conclusione di un qualsiasi lavoro edile è la qualità dei vicini di casa. Anche le intenzioni più candide sono messe in dubbio da vicini litigiosi, peggio ancora se accompagnati da un avvocato spregiudicato. L’architetto, quindi, all’inizio di ogni lavoro non dovrebbe mai dimenticarsi di fare al committente la seguente domanda specifica: “che rapporti ci sono con i vostri vicini ?”. In caso di sensazioni negative potrà già cominciare a ingerire una buona quantità di antiacidi per lo stomaco. Unica alternativa felice è occuparsi di immobili placidamente isolati, magari nel deserto.

Al 3° posto – Commettere un reato: Al giorno d’oggi, in Italia, è più semplice importare armi dalla Siria che terminare felicemente un lavoro edile. Il cantiere rappresenta un attrattiva meravigliosa per qualsiasi corpo militare che ne viene attirato come un bimbo da Gardaland. Una cosa va detta con chiarezza: in Italia non esistono cantieri completamente legali. Non è praticamente e tecnicamente possibile. Le leggi sono talmente confuse che su ogni singolo comma si potrebbe aprire un convegno; a volte i cantieri durano così tanto che, intanto, vari giudici, tribunali e ministeri hanno il tempo di cambiarne l’interpretazione anche due o tre volte e, infine, di riscrivere completamente la legge. L’architetto, che teme di non essere in regola, passa tutto il tempo a controllare e ricontrollare le carte, nel frattempo nel cantiere succede qualsiasi cosa e il pavimentista mette il rivestimento del bagno come battiscopa.

Al 2° posto –  Il TAR: L’articolo uno della costituzione andrebbe modificato: l’Italia oramai è una repubblica fondata sul TAR. Non esiste problema, controversia, grande quesito per il quale un TAR non può decidere. Il TAR in Italia può arrivare laddove la politica non si avventura neanche per scommessa, il papa non ha l’ardire di pronunciarsi e persino Dio avrebbe qualche perplessità. Dalla fecondazione eterologa ai matrimoni gay, dall’ingresso alla facoltà a numero chiuso al reclamo per quell’opera pubblica dove l’architetto credeva di aver vinto la gara e che invece, causa l’immancabile ricorso al TAR, non si farà mai.

Al 1° posto – Anticipare soldi: Inutile prendersi in giro, l’incubo più grande l’architetto lo avverte dentro di sé quasi ogni giorno. E’ là con lui quando effettua un bonifico, è costretto a fare centomila fotocopie o ad accompagnare con la sua auto il solito scroccatore da qualche parte, mentre stampa decine di tavole A0 per il Comune e non lo fa per sé, ma anticipando denaro per qualcuno o a qualche ente, nella speranza che prima o poi gli verranno rimborsati, ma lui già lo sa che non sarà così.

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