La migliore bellezza

ravello auditoriumA quattro anni di distanza dall’inaugurazione dell’Auditorium di Ravello, in costa d’Amalfi, l’immagine che mi ricordo con maggiore chiarezza di quel giorno sono gli studenti seduti sul pavimento delle stanze di villa Rufolo e villa Episcopio, giunti, anche da molto lontano ma senza l’invito, per poter assistere al dibattito sull’architettura contemporanea che si tenne quel giorno.

In quel pomeriggio piovoso di Gennaio, stringendo tra le mani il mio invito, attraversai il corridoio dove questi ragazzi tenevano invece tra le mani un block-notes e la matita aspettando di guardare da uno schermo televisivo quel dibattito. Erano molti e molto giovani ed avevano probabilmente raggiunto Ravello con ogni mezzo, armati della curiosità che anima gli anni dello studio appassionato.

Di quel dibattito ricordo l’analisi di De Seta sulla opere di Niemeyer, la testimonianza dello strutturista Susseskind che con l’architetto brasiliano aveva trascorso una parte della vita e che parlò del suo modo sereno di attraversare la vecchiaia, ma anche le provocazioni di Toscani che fu su posizioni di assoluta avanguardia, come prevedibile. Ma mi ricordo anche dei tanti sbadigli dei politici, degli assessori di qualsiasi cosa, invitati loro malgrado. Un atteggiamento, quello annoiato e diffidente, che ha da sempre accompagnato l’architettura contemporanea in questo paese, ma più in generale, la cultura.

Al di là della qualità delle singole opere, si ripensi all’enorme mole di polemiche che a Roma ha sollevato l’Ara Pacis di Meier o a Venezia il ponte di Calatrava. Se la capitale e una delle maggiori città italiane, non hanno saputo assimilare l’ingresso di un oggetto nuovo all’interno del suo tessuto storico come poteva, mi chiedo, Ravello, in fondo un piccolo paese di provincia, accettare l’aggressione del volume di Niemeyer, la prepotenza delle dimensioni dell’auditorium, la sua visibilità, l’inconsuetudine delle forme. Come poteva tollerare la deroga a tutta una serie di norme urbanistiche, in un territorio dove è vietato anche respirare, nel quale la legalità è un sottile vessillo che si sbandiera ad uso e convenienza di chiunque ?.

Ravello non poteva esserne capace, questo era ed è evidente; ma non era questo un motivo valido per impedire la realizzazione dell’auditorium.

Non stupisce nemmeno che l’auditorium dopo soli quattro anni dall’inaugurazione abbia bisogno di interventi di manutenzione. Qualcuno dovrebbe ricordare il cartello dei lavori, situato dinanzi all’ingresso del grande cantiere. Una lista di incarichi generosamente affidati a professori universitari o a professionisti ben agganciati, che unito ai meccanismi che regolano l’esecuzione dei lavori pubblici in Italia (enormi ribassi, sub-appalti ecc.) hanno abbassato la qualità della realizzazione, con le conseguenze che oggi sono d’attualità.

Tuttavia le architetture non muoiono solo perché sono state realizzate con superficialità. Come le migliori bellezze, sfioriscono per incuria ed abbandono, per la distrazione di chi la possiede e dovrebbe gestirla, per l’incapacità di riconoscerla e di saperla valorizzare. Decadono fisicamente e nell’immaginario collettivo, sfibrate dagli attacchi dei detrattori, fino a diventare vecchie prime del tempo, prima che qualcuno ne riconosca il valore. Esattamente come succede al paesaggio che dell’auditorium è la cornice.

Eppure il ricordo di quel corridoio affollato di emozionati studenti, seduti per terra, resta ancora oggi l’immagine più fedele di questa storia tipicamente italiana. Un attestato di speranza da non disperdere. Un’altra migliore bellezza di questo paese, se vogliamo.

Il popolo della politica ascolta annoiato lezioni di cultura che non merita e non capisce, mentre la sleale informazione cerca lo scoop facile, coltivando il fertile terreno del “benaltrismo” (sono ben altri i problemi di questo paese ecc..).

Sono questi i due baluardi di una società logora, cresciuta ingurgitando smisurate dosi di scadente televisione; mentre i giovani fanno la fila fuori dalla porta, lasciando appassire l’entusiasmo della loro modernità sul pavimento di un’interminabile sala d’attesa.

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