CORAGGIO. PROVACI ANCORA

chiacchierareSe c’è una cosa sulla quale i sardi non posso barare è la lingua.

Per quanto si sforzino, per quanto provino a farne a meno, il loro accento torna sempre forte.

Terra di molte lingue la Sardegna, o almeno questo angolo d’isola, che si tuffa nel mare. Il bus che ci porta a Cala Sinzias è preso d’assalto da uno sciame di extracomunitari di colore, ognuno con la sua busta azzurra colma di cianfrusaglie e speranze. Riempiono tutti i posti, con gesti abituali, si salutano tra di loro come impiegati sul treno dei pendolari. Chiacchierano in una lingua incomprensibile, dai loro cellulari parte una mescolanza di musiche di nessun genere, poi saltano fuori all’unisono al bivio della spiaggia grande. Si ritroveranno sul bus delle diciotto e trenta, dopo una giornata intera trascorsa sotto il sole a camminare sulla sabbia, avanti e indietro, tra l’indifferenza.

A Cala Sinzias ascolto ancora altre lingue. Una famiglia di russi si sistema accanto a noi. Sono silenziosi, il bimbo biondissimo e magro scava profondissime buche, che il padre riempie. E’ un lavoro ripetitivo e uguale.

Alle quattordici arriva un’altra famiglia straniera. Due coppie giovani, le bimbe rapidissime si spingono fino al bordo del mare. Le onde grandi le respingono, i padri le recuperano. Parlano fitto, sono sdraiato pancia sotto e provo a capire qualche parola. E’ calda, oggi, la sabbia a cala Sinzias.

E come in un allucinazione, mi tornano in mente pomeriggi di trenta anni fa.

C’era mia zia Emilia che insegnava inglese e viveva a Firenze, che veniva giù per Agosto a stare con la nonna. Mia mamma che le chiedeva, sempre il favore di “ripassarmi inglese”.

Erano i pomeriggi d’estate dei miei dodici anni, vuoti e noiosi come solo quei pomeriggi là possono essere. Troppo caldi e troppo deserti per uscire a giocare, troppo inutili per guardare la televisione, che comunque non trasmetteva niente.

Della lezione delle quattro e mezza, due volte a settimana, ricordo il libro di narrativa delle scuole medie, un volumetto con la copertina bianca ed una guardia della regina sopra; scritto fitto con dialoghi complicati e interminabili.

Zia Emilia che mi aspettava a casa di nonna, nella sala da pranzo grande, con i soffitti altissimi e i quadri degli antenati, inquietanti, alle pareti.

Ci sedevamo insieme al tavolo in legno di noce lucido con gli intarsi chiari. Su sedie foderate di velluto begie, inadatte alla stagione. Ricordo la nonna che ad un certo punto portava il caffè, una tazza, solo per la zia, perché io non potevo berlo.

Proprio come oggi: niente caffè sulla sabbia di cala Sinzias, solo discorsi incomprensibili, a pochi metri da me. Parole che non riconosco come nelle lunghe traduzioni di trent’anni fa, quando il dannato dizionario a piè pagina non mi aiutava mai.

Zia Emilia, mi ricordo che non si arrabbiava, d’altronde io ero solo un suo nipote, non un suo scolaro: puntava la penna sul rigo e aspettava che io leggessi e se sbagliavo correggeva e poi mi diceva “Coraggio. provaci ancora”. E poi ancora. Quindi riportava la penna all’inizio della pagina e con un sorriso provava a convincermi che il prossimo passo l’avremmo fatto insieme: “ora traduciamo”.

Invece ero io che dovevo tradurre, senza scampo, contro le parole sconosciute, il caldo e la tappezzeria begie che si incollava alla schiena. Sotto lo sguardo attento degli antenati e l’orologio antico che batteva un tempo lentissimo.

E non c’era un tempo limite: mia madre non chiedeva ore di lezione, ma obiettivi.

Mi allungo ancora un pò, sulla sabbia, verso la famiglia ospite, provo ad intuire l’argomento, mi sforzo di farlo dal labiale, dal tono della voce, dai movimenti e le conclusioni, ma è tutto così complesso.

Prima di liberarmi zia Emilia chiudeva il libro e mi interrogava. Domande facili, avevo imparato là a guardare attento la bocca, perché, pensavo, questo è l’ultimo sforzo, poi avrò di nuovo il pomeriggio noioso di un dodicenne. Zia Emilia mi parlava con il suo inglese un po’ fiorentino e un po’ napoletano, con la sua voce sottile che nascondeva un filo di tristezza segreta che nessuno capì mai. Mi spiegava tutto con la pazienza di chi ha cercato di insegnare l’inglese a decine di dodicenni imbranati e pigri, anche più di me, in ogni stagione dell’anno.

Troppo difficile capire lingue straniere, ieri a casa della nonna, oggi, su questa spiaggia. Quanto spesso oggi è persino difficile capirsi parlando la stessa lingua. Ma ci vuole coraggio, bisogna provarci ancora.

Quando Zia Emilia tornava zia e smetteva di essere insegnante, mi raccontava prima dei suoi studenti e poi del museo degli Uffizi, del panorama da piazzale Michelangelo, dell’Arno in piena e della meraviglia della cupola del Brunelleschi. Altro che traduzioni di inglese.

Raccontami ancora di Giotto, zia, prima che sia troppo tardi, che la nonna debba andare a messa, che tu debba accompagnarla”.

Vorrei dirlo a zia Emilia, ovunque si trovi ora, che in quei pomeriggi di Agosto faceva troppo caldo ed io ero troppo poco concentrato per essere un bravo alunno.

Ma che adoravo Firenze.

E che lei era brava. Lo è stata per tutti gli Agosto delle mie ripetizioni.

Glielo dire adesso, se potessi.

Le direi anche di stare tranquilla. Anche se allora fossi stato più attento, oggi non mi sarebbe servito.

Questi accanto a me sono francesi.

 

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